Immaginate un inglese imparruccato e imbellettato disteso in un campo di lavanda, che si alza e legge una riflessione sull’indifferenza che segue allo scarso piacere, si innervosisce perché non trova le Alpi («Dove sono le Alpi? Devo trovarle, queste montagne del terrore che possono condurmi al sublime»), poi si calma bevendo del tè che gli prepara una serva («Gli Inglesi devono avere una buona tazza di tè»), con la quale di lì a poco riprende il cammino attraverso i boschi. Immaginate che, dopo essersi lamentato dei troppi alberi, mentre urina contro un tronco, l’inglese si innervosisce alla vista di alcune formiche che gli camminano su un piede e inveisce («Questo è il problema con la natura: è così insistente»). Siamo in Provenza durante un’estate imprecisata del Settecento. Siamo all’inizio di The Trouble with Nature, primo lungometraggio di finzione scritto e diretto dal danese Frederik (aka Illum) Jacobi, già direttore della fotografia e sceneggiatore/regista di documentari, cortometraggi e videoclip musicali. Il titolo è ispirato all’ultima battuta citata: «This is the trouble with nature: it’s so insistent».
Il film, presentato nel concorso Bright Future della 49ma edizione del Festival di Rotterdam, racconta un episodio fittizio della vita del filosofo irlandese Edmund Burke, che nel 1757, a soli diciannove anni, pubblicò il trattato Un’indagine filosofica sull’origine delle nostre idee di Sublime e Bello, con cui, in pieno Illuminismo, gettò le fondamenta della ventura estetica romantica, madre di tutte le estetiche successive. In particolare, Burke oppose al concetto classico di Bello, modellato sulla passione amorosa, popolato di enti finiti e composti, espressione della vittoria del bene, il concetto di Sublime, modellato sulla paura, popolato di enti infiniti e complessi, espressione della lotta tra bene e male. Jacobi immagina che, molti anni dopo la pubblicazione del libro che gli ha regalato la fama, un Burke ormai in dissesto finanziario decida di recarsi sulle Alpi francesi per sperimentare quel Sublime allora descritto deduttivamente solo a partire dal pensiero aristotelico, al fine di riscrivere il suo trattato dandogli nuova vita e nuova fama. Da un lato la frivolezza dell’uomo che pretende tè e belletto anche nelle condizioni di maggiore privazione, la supponenza del padrone verso la serva indigena Awak (interpretata da una splendente Nathalia Acevedo) datagli in pegno dal fratello, e la nevrosi dell’intellettuale, espressa magistralmente dall’interpretazione bofonchiante di Antony Langdon (già chitarrista degli Spacehog), sono fatte oggetto di una ridicolizzazione che scivola lungo tutto il film, fino all’inquadratura mirabolante con cui Jacobi riproduce Viandante sul mare di nebbia di Caspar David Friedrich, quadro romantico per antonomasia, con un Burke di spalle di nuovo urinante sugli orridi alpini. Dall’altro lato l’inventore del Romanticismo, attraverso delle riprese al limite in location reali, viene mostrato mentre lotta contro se stesso e contro i suoi abiti mentali, fino a spogliarsi di tutto, tè belletto e serva, tanto che gli si potrebbe attribuire retrospettivamente il pensiero di Friedrich: «Devo stare da solo e sapere di essere solo per contemplare e sentire completamente la natura; devo abbandonarmi a ciò che mi circonda, devo fondermi con le mie nuvole e con le rocce al fine di essere quello che sono. La solitudine è indispensabile per il mio dialogo con la natura». Tanto che gli si potrebbe attribuire retrospettivamente persino il pensiero di Jacobi, che dopo anni di alpinismo e spedizioni nell’Artico e in Amazzonia durante i quali, spinto da Lars Von Trier, ha realizzato diversi documentari, è approdato alla fiction: «Quando ero giovane ho cominciato a fare lunghe escursioni in solitaria nel deserto. A volte per mesi. Come mi sono immerso nel terreno mi sono reso conto che c’è una strana connessione tra il paesaggio interno ed esterno. Un diverso tipo di conoscenza che è legata alla memoria di un luogo. Sono affascinato e confuso dalle mie esperienze. A volte ho sentito una connessione con nulla e tutto allo stesso tempo, ma quando sono tornato alla civiltà, l’angoscia e l’oscurità mi hanno sopraffatto. […]. Abbiamo passato secoli a costruire una fortezza intorno a noi, sia psicologicamente che in infrastrutture grezze. Ma cosa c’è sotto questo sottile strato di ragione?». Se poi riflettiamo sul fatto che il Sublime della cui percezione Burke va a caccia su e giù per le Alpi è nascosto proprio sotto (sub) il confine (limen) vertiginoso e indecidibile tra interiorità e materia, tra tutto e nulla, tra fusione e divisione, tra dialogo e solitudine, fonte di eccitazione e angoscia allo stesso tempo, allora, anche se ci scappa un rumore di elicottero buttato ammiccando nell’ultimo scorcio del paesaggio sonoro del film, non possiamo non accorgerci che quello che abbiamo visto non è un period movie, genere del quale Jacobi peraltro parodia molti cliché, e che lo stesso Burke, incerto narcisista ridicolo pensoso lacerato coraggioso titanico, piccolissimo e grandissimo, umano troppo umano, in fondo non è che un ritratto impietoso dell’uomo contemporaneo, ancora imprigionato nella sua condizione di epigono del Romanticismo.
In concorso nella sezione Nuove Impronte a ShorTS 2020
Vedi il film on demand (disponibile per 24h dalle ore 20.00 dell’8 luglio, su prenotazione gratuita)