Lei ammonisce lui: «Se questo è un film, non lasciarmi andare via. Perché è questo che siamo». Malcolm & Marie (su Netflix) si approssima al finale, ma quelle parole avrebbero potuto trovare posto ovunque; forse prima, forse dopo, per palesarsi programmaticamente improvvise dentro un altro dettaglio, un altro piano, un altro dialogo, una scena diversa. Parole, parole, parole. Tante, eccessive, affilate, dolci, violente. Come un fiume, una partitura, un duello, un cul-de-sac, un amplesso, a sostanziare e a formalizzare le schermaglie di amore e guerra, di mezze verità e mezze menzogne, a informare il gioco al massacro e quello del desiderio e delle identità della giovane coppia interpretata da John David Washington e Zendaya. Scrive e dirige (e produce, coadiuvato anche dagli attori) Sam Levinson, figlio di Barry, in un bianco e nero 35 mm (fotografia di Marcell Rév) che sembra quasi uno sberleffo all’Assassination Nation e all’Euphoria d’America e che riporta perfidamente al mondo la Hollywood classica dentro una sceneggiatura che contempla nella sua schizofrenica ma controllatissima danza dialogica e narrativa, tra gli altri, Spike Lee e Gillo Pontecorvo, William Wyler e Barry Jenkins. Un film girato in due settimane a Carmel-by-the-Sea, California, nell’estate 2020, in pandemia, con una troupe ridotta, due soli attori, una scrittura ultimata tre giorni prima delle riprese, una location isolata in collina (la Caterpillar House, villa progettata dallo studio Feldman Architecture) e l’avallo dei sindacati di settore.
Malcolm e Marie, afroamericani, regista in ascesa lui e attrice ex tossicodipendente lei che alla recitazione non è però riuscita a votarsi, tornano a casa dopo l’esaltante première del nuovo film diretto dall’uomo, opera che potrebbe rappresentare una svolta per la sua carriera. È affamato e su di giri Malcolm, di una gioia ballerina e alcolica; Marie a preparargli maccheroni al formaggio mentre evidentemente qualcosa della serata non l’ha resa felice. Incalzata da lui, vuota il sacco: non riesce ad accettare che il suo partner abbia pubblicamente ringraziato tutti durante la cerimonia, dimenticandosi proprio di lei; lei che è il suo amore, lei che è all’origine della protagonista del film, perché quella storia, quella figura sono ricalcate sul suo dolore e sulle sue dipendenze passate. È da qui che tutto continuamente crolla e si rialza, si annichilisce e rinasce di nuovo, è da qui che Malcolm & Marie muore e rinasce continuamente come luogo performativo, reticolato emotivo, cadenzato e spudorato auto-sabotaggio/auto-celebrazione della sua patina, dei suoi vezzi, del suo teatro da camera cinematograficamente vorace, del suo (di Levinson? dell’«emotivamente ottuso» Malcolm?) narcisismo d’autore. Storia d’amore in un interno, nelle stanze, nella notte tra un venerdì e un sabato, tra l’arte e la vita, storia di un sentimento incastonato tra frustrazione e rabbia, ambizione e passione, urla e lacrime, abbracci e distanze, ronde in raffinato b/n sulla coppia e sulle sue sintesi impossibili, mancate, violate. Sulle sue dolorose mediazioni. Un film sul cinema, proprio nella misura in cui azzera la teoria ed esaspera la grafica dei corpi. Malcolm che monologa su come sono buoni e stupidi i bianchi, specialmente se critici cinematografici che bollano come «politico» ogni fotogramma di un regista nero, è straordinariamente paradigmatico nella sua necessaria inutilità. Levinson dice di ispirarsi alla Notte di Antonioni ma cerca Cassavetes, divora i suoi personaggi (che divorano il film) e fa splendere i suoi attori. Fa della forma una questione di superficie. Un film sfacciatamente contemporaneo.