True Story è basato su un cortocircuito. Innanzitutto il film è tratto da un libro scritto dal giornalista Michael Finkel e basato sulla storia vera (?) a lui stesso accaduta. In questa storia, un killer o presunto tale di nome Christian Longo si nasconde in Messico sotto falso nome per sfuggire all’arresto che lo vedrebbe come l’assassino di sua moglie e dei suoi stessi figli. Il nome che usa per eludere le sorveglianze è proprio quello di Finkel, una firma che Longo segue da tempo con passione ma che non ha mai conosciuto. Così, incuriosito dal profilo e dalle motivazioni che avrebbero spinto un potenziale assassino a fingersi un giornalista del New York Times, portano Finkel a conoscere Longo e instaurare con lui una particolare e sincerissima amicizia. Il giornalista è interpretato da Jonah Hill, l’omicida da James Franco. Il regista Rupert Goold, al suo esordio in cabina di regia, opta quindi per due attori molto diversi tra loro a cominciare dalla corporatura. Una scelta che non risulta casuale anche perché i lineamenti dei due interpreti non è che siano proprio simili a quelli dei veri personaggi. True Story è quindi un film che racconta l’incontro, o meglio, lo scontro tra due opposti che insieme si scopriranno complementari. Nelle lunghe scene all’interno del carcere di massima sicurezza, la macchina da presa di Goold lavora sulla superficie. Scivola accanto ai volti, prova a scrutarli e andare oltre le apparenze. Tuttavia, non sarà facile per nessuno (per il pubblico, per la corte e per il personaggio di Finkel) scoprire la verità.
Chiaramente True Story si basa proprio su questo concetto. Su cosa significhi cercare la verità, cosa sia e quanto ci si possa spingere oltre per “costruirla”. Le scatole cinesi non mancano (un film tratto da un libro a sua volta basato su una storia falsa che viene sbugiardata in nome di una versione presumibilmente vera) e la struttura labirintica di Goold ha il merito di condurre lo spettatore per mano all’interno di un intreccio appassionante anche se sviluppato in maniera frettolosa, soprattutto per quanto riguarda l’inserimento di personaggi secondari. A pensarci con il senno del poi, in effetti True Story lascia emergere ciò che nel secondo film del regista, ovvero il più recente Judy (2019), emergeva chiaramente. Anche nel biopic dedicato a Judy Garland infatti si lasciava maggiormente spazio a una ricostruzione appassionata ed emotiva della star invece che a un ritratto veritiero. In entrambi i casi abbiamo a che fare con degli attori e un pubblico: lì la diva alle prese con uno show, qui un imputato che deve convincere una giuria. Se però in Judy Renée Zellweger trovò l’occasione buona per tornare in scena con una prova convincente tanto da vincere un premio Oscar, quello che penalizza un po’ True Story è proprio la presa che ha sul pubblico. Jonah Hill e James Franco sembrano piuttosto svogliati e non riescono a far emergere appieno il loro talento. Così finisce quasi che ci si debba accontentare, tanto della resa scenica quanto della profondità più tematica di un lavoro che avrebbe sicuramente potuto sfruttare meglio il suo potenziale ma che invece, in questo modo, lascia un retrogusto amaro dopo la visione.