Il film è nero, e mai ci sarà un film più nero di questo. L’unico altare, foriero di vita, è alla luce. Una torcia riposta dentro un piccolo arco, e dimenticata accesa un’intera notte. Su questa torcia il regista, Ebrahim Golestan, costruisce una piccola ellisse, punto di svolta del film. Una bambina neonata resterà incantata sotto questa luce a guardare un uomo e una donna che fanno sesso. La donna, Taji, che quella torcia ha voluto accesa, dirà che è la prima volta che l’ha fatto a occhi aperti e senza essersi prima ubriacata. Lui, Hashem, resterà indifferente e teso. Lei sino alla fine del film dirà che gli occhi di quella bambina continuano a guardarla, le sono rimasti dentro. Lui non avrà il coraggio di trasformarla nel destino di una nuova vita e unione. La storia di quest’uomo e questa donna finirà qui, persi e inghiottiti da una Teheran brulicante e indaffarata. La fortuna, dirà lei, capita a tutti, sempre, ma poi dipende dall’uso che ne facciamo. La loro fortuna era quella bambina che li aveva uniti per una notte, e loro l’hanno persa. Il film inizia nel buio, di notte, e non si era mai vista a cinema una notte più nera eppure brulicante di mille occhi. Fari di automobili, neon d’insegne e lampioni che nulla illuminano e riempiono lo schermo del loro movimento. Il movimento di un taxi e del suo tassista, Hashem, che percorre la metropoli sovrastato dal suono martellante delle percussioni. E poi una radio, da cui qualcuno (è la voce dello stesso regista) recita che “i mille occhi del pericolo erano aperti, c’era la notte con tutta la sua oscurità e nell’oscurità nessuno riusciva a distinguere il predatore dalla preda”.
Una donna avvolta nel nero chador ferma il taxi e chiede un passaggio per Abbas Abad, un quartiere residenziale sulle colline a nord di Teheran che nell’anno in cui il film è girato, era appena in costruzione. Scesa dal taxi, la donna abbandona sul sedile una bambina, e Hashem non riuscirà più a trovarla tra scheletri di palazzi in costruzione, del tutto disabitati. Né riuscirà a sapere nulla di lei, tornando al mercato della frutta, dove era salita sul taxi. Con la bambina in braccio si reca dal datore di lavoro, in un locale notturno dove, ad alcuni amici che vi perdono il loro tempo, racconterà l’accaduto. Nel locale vi lavora Taji, una giovane donna in confidenza con lui. Chiuso il locale lo aspetterà fuori della stazione di polizia, dove lui è andato a denunciare il ritrovamento. Insieme torneranno a casa di lui, decidendo di passare la notte insieme, dovendo lui aspettare il giorno dopo per andare in un orfanotrofio e lei prendendosi anche cura della bambina. Quella non è la prima volta che fanno l’amore, ma lei ha rapporti anche con altri uomini. Lui è però ossessionato dai vicini e non capisce l’intenzione di Taji di costruire una vera relazione tra loro. Lei vuole uscire da quella vita “senza entusiasmo, senza desiderio, senza parlare mai apertamente, vivere come un morto, esistere senza pensare a come lo si fa”. Lui prova ad accontentarla, ma le chiede di barricarsi in casa per non dare scandalo. Va in orfanotrofio per chiedere l’affidamento della bambina e poi in tribunale. Tornerà da lei a mani vuote e si farà di nuovo sera dopo un lungo dialogo serrato tra i vicoli del bazar e poi in taxi per andare all’orfanotrofio dove lei vuole riprendersi la bambina. Per lui la loro relazione può continuare come prima, per lei invece è finita. Lui non potrà più essere nemmeno uno dei tanti. La luce tornerà a spegnersi e il taxi sarà inghiottito nella notte. In una vetrina, decine di televisori replicano il mezzo busto di un uomo che invoca lo spirito di cooperazione come etica sociale. Un’altra donna con lo chador chiede un passaggio a un altro taxi. Anche Hashem rimette in moto e riparte, senza Taji. Poco prima la macchina da presa l’ha abbandonata, ferma e sconfitta in un corridoio dell’orfanotrofio.
Mattone e specchio ( Khesht va Ayeneh), questo il titolo enigmatico del film che prende spunto da un verso di Farid al-Din ‘Attar: “Ciò che un giovane riesce a vedere in uno specchio, un vecchio vede nel mattone”. Fu girato da una troupe di sole cinque persone tra il 1963 e il 1965, proprio negli anni delle rivolte popolari guidate dal clero sciita contro le riforme di modernizzazione. La lavorazione dovette interrompersi diverse volte, anche per inconvenienti tecnici di cui il film porta elegantemente le tracce. Si pensi alla reiterazione di entrate e uscite dalla stessa porta, in un corridoio affollato del Tribunale. Una soluzione per la rottura della lente anamorfica che fa il paio con l’uso di angolature dal basso nel ricordare stile e modi di produzione alla Orson Welles. Moltissime le sequenze che meriterebbero un posto di riguardo nei manuali di montaggio. Quella iniziale, dallo stesso protagonista raccontata come un incubo, con alternanza di piani contrari a ogni codice già scritto, e al contempo capaci di costruire con perfezione lo spazio come luogo di astrazione, mentale. Una rapidissima sequenza di jump-cut su ripide scale, per restituire il senso del vuoto e della caduta. Una densità di neri e un contrasto raramente così riusciti. Contemporaneo e per nulla da meno ai decoupage più arditi di Michelangelo Antonioni per L’Eclisse o Jean Luc Godard per À bout de souffle. Per non parlare di alcune licenze, degne di Luis Buñuel, come la capo infermiera che nel pieno di una scena concitata volta le spalle a tutti e si eccita sino all’orgasmo ascoltando chi le ste parlando al telefono. Alle sue spalle una donna al nono mese reclama l’affidamento di un neonato di due o tre giorni essendo la sua pancia in realtà fatta solo di stracci, per simulare una gravidanza e nascondere a parenti e vicini la sua sterilità. Sarebbe davvero difficile paragonare questo film al cinema iraniano post-rivoluzione, anche al più libero. Forse si può parlare di una diaspora iraniana, essendo lo stesso Golestan andato a vivere nel 1975 nel Sussex, pochi anni prima della rivoluzione khomeinista del 1978. Il film già nel 1966 uscì con diversi tagli, vista anche la durata di oltre due ore, e fu accolto in patria come pretenzioso. Primo lungometraggio narrativo di un regista che aveva fondato nel 1958, con finanziamenti provenienti da alcune compagnie petrolifere occidentali, la prima casa di produzione indipendente iraniana.
Ed è la Golestan Film Studio a farsi notare, nel 1962, con il cortometraggio La casa è nera, forse l’unico film noto in tutto il mondo del cinema prerivoluzionario iraniano. L’autrice, Forough Farrokhzad, era legata sentimentalmente a Ebrahim Golestan, ma morì in un incidente d’auto un anno dopo l’uscita sugli schermi di Mattone e specchio, nel 1967. E se lui apriva il film prestando la sua voce allo speaker radiofonico, lei lo chiudeva con un cameo senza crediti chiusa nello chador della donna che prende il taxi. Considerata una dei massimi poeti persiani contemporanei, il suo film ebbe il Gran Premio a Oberhausen, e arricchiva gli scaffali di diverse Cineteche del mondo, citato in ogni Storia del Cinema che portasse lo sguardo sull’Iran. Nella pagina di RaiPlay che ospita Mattone e specchio lo si trova come extra. In un’altra library di libero accesso, quella di Open MLOL, è possibile vedere invece il secondo cortometraggio di Ebrahim Golestan, Yek Atash (Un fuoco), un documentario sull’incendio di un pozzo petrolifero, del 1961. Un lavoro massacrante dentro un girone infernale, seguito e raccontato per tutti i suoi settanta giorni, e alla fine, spente le fiamme, non resta altro che andare ad aprire un altro pozzo. Il testo di commento, scritto come una nuda cronaca da Forough Farrokhzad. si chiude dicendo che “questa è un’altra storia”. Storie come esperienza, che rendono specchi anche i mattoni più neri. E la nera casa di mattoni si fa specchio di un Iran affaticato e già stanco, non padrone del suo destino e della sua fortuna. Prosa e poesia, e se la prosa è il potere dell’esperienza, alla poesia Ebrahim Golestan dedica un momento delirante del suo film, con l’amico di Hashem che veste i panni dell’esistenzialista dicendo che “in principio non era il verbo, in principio era la lettera” perché è della lettera il potere di dare vita alle parole e cambiarne il senso. Sono le lettere a trasformare i mattoni in specchi. E i bambini ripresi nell’orfanotrofio, alla fine di Mattone e specchio, come i lebbrosi ripresi per La casa è nera, sembrano essere le lettere sparse di tante parole ancora possibili. Chiosando il commento di Forough Farrokhzad, attendono la luce ma per ora vi è solo l’oscurità. Noto nel mondo anglosassone per la sua attività letteraria, Ebrahim Golestan, già conosciuto come traduttore in persiano moderno di Ernest Hemingway e Mark Twain, è ancora un oggetto poco indagato per la sua breve esperienza cinematografica, finita con l’abbandono dell’Iran. L’anno prima di partire per l’Inghilterra aveva realizzato il suo secondo e ultimo lungometraggio, Secrets of the Treasure of the Jinn Valley (Asrar ganj dareheye jenni). Nel 2015 la 30.ma edizione de Il Cinema Ritrovato a Bologna gli ha dedicato una sezione con diversi documentari oltre ai film citati. Dopo, è nata una collaborazione diretta del regista con il Laboratorio L’Immagine Ritrovata della Cineteca di Bologna che lo ha visto seguire di persona il nuovo restauro, potendo così reinserire tutti i tagli e curare il grading così importante. Si è partiti dal negativo di ripresa originale e per il sonoro da una copia in persiano del film. Il restauro è terminato nell’agosto del 2018 ed è quello messo in onda da Fuori Orario e oggi disponibile sulla piattaforma web della RAI.
https://www.raiplay.it/programmi/mattoneespecchio