C’è un’ossessione nel cinema di confine, quel cinema che, alla luce della cronaca che racconta delle storie dei migranti, si interroga su come e fino a quale punto le vite di chi si scontra con questa realtà si modifichi, in che misura, cioè, la migrazione diventa un tema che finisca con il toccare anche l’anima degli ospiti, le loro vite in un presente sempre incerto come quello drammatico di chi arriva dal mare. Non sfugge a questa caratteristica, sebbene con un originale incrocio di situazioni e di forme narrative, l’ultimo film di Marco Amenta, Tra le onde, scritto dallo stesso Amenta insieme a Roberto Scarpetti, Niccolò Stazzi e Ugo Chiti.
Salvo (Vincenzo Amato) abita a Lampedusa e in quell’estremo lembo d’Italia gestiva un locale dove Lea (Sveva Alviti), la sua compagna, cantava. Oggi Salvo è solo e durante un’uscita in barca per la pesca vede un uomo in mare, lo porta fin sulla spiaggia, ma l’uomo è morto. Dai suoi documenti apprende che si chiamava Nadir ed era venuto in Italia per riunirsi alla moglie Farida. Lei oggi vive in Sardegna e Salvo decide di portarle il cadavere di Nadir, ma per lei il marito non è ancora partito e che quel corpo non può essere il suo. Durante il viaggio Salvo, in un locale, rincontrerà Lea che decide di seguirlo per condividere con lui quel doloroso viaggio. Tra le onde è un film che sembra essere fatto solo di sentimenti. Tanto scarni i fatti, tanto travolgenti i sentimenti che assediano la vita del protagonista attorno al quale si addensano le attenzioni della scrittura. Film che sa stare fuori da regole precise e quindi a suo modo atipico, affogato dentro il turbamento dei ricordi, piuttosto che dentro l’emozione del presente. Amenta sperimenta la cupa consistenza delle notti ventose siciliane che ripetono l’angoscia di Salvo così come la minacciosa consistenza del mare ravviva il passato. La sua ricerca e l’indagine che ha lo scopo di raggiungere Farida fanno del film un road movie che si muove su quella linea marginale del confine di un mondo desertificato, tra strade lineari e polverose e anonimi luoghi che ristabiliscono però, alla fine, la certezza del presente. Salvo attraversa queste strade con il suo nuovo dolore, con il suo carico di pesanti storie personali. Storie ormai irrigidite nella cadaverica immagine di Nadir, il cui corpo diventa simbolo e fardello della sua stessa esistenza. Per altro verso le storie di Salvo e di Lea da una parte e quella di Nadir e Farida dall’altra, sembrano rispecchiarsi in quella impossibile unità che diventa utopia.
È per queste ragioni che Tra le onde che inizia come un altro film sull’accoglienza, presto diventa un’altra cosa, allontanandosi comunque da ogni direzione che comprenda lo sguardo sulla drammatica vicenda della migrazione. L’episodio che dà il via al film, ci si accorgerà, è tutto letto in chiave personale dal suo protagonista. Tra le onde diventa un film che, non senza difetti, ci propone ancora una volta uno sguardo dentro l’invincibile sentimento d’amore. Amenta sceglie una narrazione lineare, lasciandosi andare a una manipolazione del tempo con una scomposizione che si adatta alla confusione che vive la mente di Salvo, solo nel finale. Un andare in avanti e indietro che destabilizza ogni certezza dello spettatore e ricompone i pezzi sparsi del racconto. È per queste ragioni che anche questo film sembra definire la propria natura proprio su quel confine di cui narra, viaggiare su quella linea geografica immaginaria che lo rende ibrido per originaria concezione, quasi senza nessuna appartenenza. Un po’ melodramma, un poco cinema radicato nel presente a descrivere indirettamente una realtà complessa e difficile, giallo esistenziale o noir e cinema che si consuma nel silenzio, in quello stesso silenzio che trovano molte storie che la cronaca ignora. Tra le onde indaga sulla scomposizione degli equilibri e scommette sul fascino dell’intimità dei suoi personaggi nel riaccomodare l’equilibrio sospeso di Salvo.
Un lavoro nel quale gioca un ruolo la forte caratterizzazione degli ambienti, quei notturni insistiti a ritrarre l’anima di Salvo, tra i venti che spazzano Lampedusa e le altre isole e il mare che rinnova promesse e custodisce storie non narrate. Cinema sospeso tra terra e mare, in quell’incerto confine tra forme conosciute e ricerca di nuove stabilità che possano raccontare con parole differenti un inguaribile male di vivere, che in certi luoghi si fa più forte e più intenso, forse proprio su quei confini dove ogni speranza viene negata. Non tutto è risolto nel film di Amenta, non tutto sempre fila liscio e se la ricerca di una nuova idea di racconto per un film che dal reale trae una nuova linfa è apprezzabile, con il coraggio di raccontare una inappagata ricomposizione dell’unità amorosa, lo stesso non può dirsi per un certo indugio in alcune situazioni, per una espressione di sentimenti troppo affidata a certi sguardi (durante il viaggio in auto nel finale) che purtroppo, senza restituire la sperata intensità, ne appesantiscono la narrazione. Identicamente si dica della lettura della lettera che appare didascalica all’interno di una narrazione per lo più silenziosa. Sarebbe quasi stato bello affidarsi solo alle immagini per un film che forse questo lusso se lo sarebbe potuto permettere.