Un esercente americano se ne esce con un geniale double bill: accoppia nella stessa serata La cosa di John Carpenter e The Hateful Eight. Ad accomunare i due film, d’acchito, la presenza di Kurt Russell. E, certo, anche la suggestiva ambientazione in un limbo nevoso temporaneamente inaccessibile a eventuali soccorsi. Inoltre. La presenza di un cane di razza husky. La distribuzione di entrambi anche in 70mm e la scelta in questo caso dell’utilizzo di un formato del quadro espanso e desueto (il primo era in 2,20:1, il film di Tarantino in 2,76:1: entrambi eccezioni alla regola della aspect ratio del CinemaScope, che è normativamente 2,35:1) per raccontare una storia paradossalmente antispettacolare e fatta essenzialmente di riprese in interni. E poi. Le colonne sonore affidate a Ennio Morricone (e The Hateful Eight ingloba tra i suoi temi non originali anche tre brani della soundtrack di Carpenter: Eternity, Bestiality e Despair. Perfino i titoli tintinnano di chiasmi non casuali). E anche. Gli effetti speciali gore e splatter affidati alle teste di serie della loro epoca nel campo del makeup creativo (in Carpenter il mago Rob Bottin; in Tarantino i geniali Howard Berger e Greg Nicotero). Ma soprattutto. La convivenza forzata di una compagine interamente maschile (nel film di Carpenter gli uomini sono dodici, in Tarantino nove) alle prese con una creatura (femmina, quella di Tarantino; neutra, ma stranamente percepibile come non maschile quella di Carpenter) naturalmente ostile e animata da un istinto malevolo di autoconservazione.
Un’entità che non metaforizza poeticamente il Male in senso assoluto, ma che agisce solo in virtù del più feroce e prosaico istinto naturale di autodifesa: una creatura che attacca l’uomo solo perché lo teme. Un mostro, che è anche uno specchio: l’incarnazione deformata in un unicum di ogni protagonista e contemporaneamente di tutti insieme. Un elemento perturbante, come quasi sempre è la donna, sia nel cinema di Tarantino (che ne è pieno) sia in quello di Carpenter (che ne è meno provvisto). E ancora: la definizione puntigliosa dei conflitti interiori dei protagonisti, la loro capacità inconscia di configurarsi come una sorta di sineddoche dell’umanità già proiettata in Terra verso l’inferno, con la paranoia a fare da catalizzatore. Intere sequenze di The Hateful Eight (come il primo tentativo di individuazione dell’essere infetto, con l’autoproclamazione a leader innocente di Samuel L. Jackson, speculare a quella di Russell nel film di Carpenter) sono calchi consapevoli di La cosa (di cui Carpenter ha sempre rivendicato senza misteri la matrice christiana –nel senso di Agatha- esattamente come Tarantino non nasconde il debito meccanico e atmosferico di The Hateful Eight con Trappola per topi). E anche i finali (aperti, beffardi, per nulla liberatori e indifferenti alle sorti dei singoli e per estensione a quella del progetto umano tutto) sono identici: un nero e un bianco (stavolta a dialettiche rovesciate) sembrano aver neutralizzato l’origine di tutto il male ospitato dallo schermo: ma la loro sorte certa e unica è in ogni caso la morte (per assideramento in Carpenter, per dissanguamento in Tarantino). Che sopraggiungerà sia nel caso in cui l’aliena/Daisy Domergue sia stata effettivamente uccisa, sia nel caso (più probabile?) che gli sforzi per neutralizzarla siano stati vani e quindi che a dar loro il colpo di grazia sia ancora e definitivamente lei. Cinemi gemelli. Anche perché, per sua natura, Tarantino è sempre gemello di altro, di qualche cosa.