Contaminando il procedimento classico del suo cinema, che pure covava nella propria carne r-allentata, dal Sesto senso a The Umbreakable, il germe della decontestualizzazione, volendo, anche della contestazione (per quanto sottesa) dei canoni (il classico appunto, poi il genere, il soprannaturale, ecc.), Shyamalan mette insieme del materiale composito che, attraverso tonalità differenti, spesso opposte, e il contrasto, appunto la distonia che ne deriva, brulica dentro i tremori della camera, le brusche virate di inquadratura, di luce, proprio di contesto: da quello bambinesco e adolescenziale dei due protagonisti (un’amatorialità che si nutre di pose e dizioni rap, schemi di football, videità e viseità d’impronta, improvvisazione d’Mtv o reality, elevata a ispirazione), a quello di una familiarità violata, dimidiata (le interviste alla madre, in cui la mdp si ferma e così riflette sulle ragioni della confessione), fino all’orrore strisciante nella casa dei nonni, intercapedini labirintiche, casamenti di smaltimento scatologico, slarghi campestri costellati dal freddo autunnale, con pozzi: tutta una sostanza che, diversamente dal passato quando restava laconica e sopita sullo sfondo, sopravanza nel suo formicolare granuloso, a bassa risoluzione.
Una varietà di quadri (inquietanti quelli riguardanti il pozzo, a richiamare, insieme alla sagoma sottile e accapigliata della nonna, certe vertigini proprie di The Ring, salvo comprenderne poi la natura tutta tridimensionale, mimetica) che oltre che disseminare false tracce in favore dello svelamento finale (tipica imprimitura shyamalaniana), riflette direttamente e in modo anche divertito (penso alla scena, terribile, dell’inseguimento di Nana nei cunicoli sotto la casa, a cui segue il suo ritirarsi tranquillo, voltandosi di spalle e mostrando le natiche nude, rapprese), riflette, dicevo, sulle attuali modalità di ripresa (e interpretazione) della realtà, la quale è l’obiettivo principale del cinema di un regista solo apparentemente interessato al fantastico. L’ironia attagliata all’orrore, come suo risvolto imprevisto (appunto la scena del deretano grinzoso) riguarda il processo stesso di The Visit, come se il film (e il cinema) non si prendesse sul serio (il che è una novità se paragonata alla serietà, al serio incedere classicistico di altri film di Shyamalan); e in effetti a tratti è così (ad esempio nel surreale, falotico placcaggio di Tyler, che si carica facendone la telecronaca, che abbatte un massimamente scatologico Pop), ricordando operazioni simili di un postmodernismo “a bassa risoluzione” e però arguto, intimamente filosofico, come certe cose fintamente giocose di Harmony Korine o la metafisica-trash di alcuni inserti di vhs bellusconiani (Maresco). E in questo senso la critica leggera e scanzonata ad alcuni reality bislacchi, fuori da ogni morale e rivelando invece una fruizione attenta e divertita di questi prodotti, depotenzia lo Spettacolo del postcapitalismo, riconducendolo alla propria natura di pura esibizione, priva di verità, rispetto alla falsità così esibita di The Visit che invece, e non solo lateralmente, sembra dire molte verità sul contemporaneo, cioè non solo per quel che riguarda il metacinematografico, ma tornando agli affetti, addirittura alla famiglia, come ambito di una nucleare solidarietà, resistente all’orrore, che è, dicevo, orrore della realtà.
È questa l’agnizione del film (e del miglior Shyamalan): non c’è fantastico (magari il demoniaco che si presume per tutto il film di fronte ai vomiti copiosi e gli accessi da ossesso di Nana o le amnesie e il deambulare automatico dello zombie-Pop); non c’è fantastico che non sia terragno, che non mantenga un saldo contatto con il greve contingente; che non riaffermi, alla fine, l’ineludibilità di una realtà spesso inquadrata come carcere. Inferenza spiegata dalla coazione al cabotaggio, dei fantasmi del Sesto senso, che non riescono ad andare altrove, a staccarsi da terra, e rimangono incastrati nei gangli di una realtà di sofferenza protratta. Ecco il sostrato esistenziale (e resistenziale) di questo cinema: il dolore dello stare, del restare nonostante le assenze, gli abbandoni, la violazione della fiducia, che era il tentativo di adeguarsi al caos. Il cinema di Shyamalan si veste di genere, spesso raffinato, decontestualizzato, si schermisce dietro la possibilità di un altrove, ma per parlare del qui e ora, del suo orrore. Che è l’indagine svolta dalla mdp di Becca, appunto in ambiente domestico: la casa dei nonni in cui aleggiano non solo i traumi dei due fratelli (abbandonati dal loro padre), ma anche quelli della madre (che nel frattempo tenta di riprendersi sottoponendosi a pratiche, sollazzi da crociera, con tutto il corollario di compassione che ne deriva, un umorismo alla maniera di Una cosa divertente che non farò mai più: ancora il comico come risvolto, questa volta del dolore), tra fughe passate, perpetrate, ed altre presenti, subite. Il domestico, con i suoi pannoloni nauseanti, i suoi specchi, è il contesto terribile (ma ascritto a una follia tutta naturale anziché a un mostruoso soprannaturale) della presa d’atto dei traumi legati agli affetti (tre generazioni che si confrontano e si scontrano), e di una sorta di abreazione, di superamento della paura dei germi e del proprio aspetto di adolescente, ed è lì che si può restare, ora non più nel carcere (così lo sguardo di Shyamalan è finalmente fiducioso), aspettando di crescere e di perpetuare la piccola pragmatica degli affetti, tra il perdono e la dimenticanza, e la normalità, la normale aderenza di un abbraccio.