Mohammad Rasoulof è un regista che insiste sulla dimensione morale dei suoi personaggi. Fosse vissuto in un altro paese o in un’altra epoca, il suo lavoro avrebbe avuto solo la densità psicologica e speculativa di un cinema prettamente di pensiero. Ma poiché vive nell’Iran di oggi e, per giunta, è ben attivo sulla scena dell’opposizione al regime, la sua opera ci giunge con la forza d’urto politica che gli imprimono tanto la realtà in cui nasce, quanto le spinte (anzi gli spintoni) della censura. Come Jafar Panahi, anche Rasoulof conosce le accuse, gli interrogatori, i tribunali, la prigione, i divieti a lasciare il paese, e questo fa di lui un artista in qualche modo costretto a declinare i temi della sua riflessione nei termini di una argomentazione politica, che risulta antagonistica rispetto al potere più per colpa della censura che per una focalizzazione diretta dell’autore. È in sostanza, per converso, il meccanismo su cui si basa la riflessione di Il male non esiste (Sheytan vojud nadarad), il film con cui Mohammad Rasoulof (non) è andato a vincere l’Orso d’Oro alla Berlinale 70: “Come fanno i governanti autocratici a trasformare le persone in semplici componenti delle loro macchine autocratiche?” si chiede il regista illustrando l’origine del film. Ed è come se parlasse anche di se stesso e del suo cinema, di come il suo ruolo di filmmaker sia segnato e indirizzato da un potere che trasforma in atti di antagonismo politico le sue storie di uomini a confronto con la dimensione morale delle loro scelte.
Il male non esiste è un film sull’uccidere, più esplicitamente sulla pena di morte. E i protagonisti dei quattro episodi che lo compongono sono determinati nel loro modo di essere e nelle decisioni che prendono da un potere che li mette nella condizione di dover scegliere se uccidere per mano dello stato oppure ribellarsi e seguire la propria coscienza. Se non fossero costretti a farsi strumento dell’esecuzione capitale cui lo stato condanna alcuni individui, questi quattro personaggi avrebbero da confrontarsi con un arco di questioni morali ed esistenziali ben differente. Rispetto al dovere di uccidere imposto dallo stato, la linea di condotta dei personaggi del film va dall’accettazione supina alla rivolta violenta, ma ciò che colpisce di più è la narrazione della ricaduta delle loro scelte sulle vite delle persone che hanno accanto. [spoiler allert] Nel primo episodio, infatti, assistiamo alla quotidianità di un uomo che trascorre la giornata assieme alla moglie e alla figlioletta e la sera si reca al lavoro, nella prigione dalla quale lo abbiamo visto uscire all’inizio, per compiere il suo dovere di esecutore con assoluta indifferenza, premendo un pulsante mentre si prepara la cena. Scena di una forza nettissima, in cui Rasoulof si abbandona a una freddezza assoluta che ribalta con grande sapienza l’ambiguità dell’inquietante incipit, in cui, dopo averci fatto sospettare che il protagonista avesse caricato nel bagagliaio un cadavere e averci spinto a risalire con lui i gironi dell’uscita dal parcheggio, ci rivela la normalità del suo gesto (nel bagagliaio aveva solo la sua razione di riso…). Al rapporto tra responsabilità individuale, relazioni di famiglia, dimensione del lavoro e del dovere è del resto legato l’intero apparato drammaturgico del film, declinato episodio dopo episodio con una varietà di sfumature molto interessante. Nel secondo, infatti, un giovane militare di leva assegnato al braccio della morte trascorre una notte in pena perché non intende accompagnare il condannato sul patibolo e cerca nelle telefonate con la sua ragazza la forza per portare a compimento un’azione che scopriremo essere ben diversa da quella cui è comandato.
Nel terzo episodio, invece, un soldato che ha ottenuto tre giorni di permesso per recarsi a casa della sua ragazza e chiederla in sposa, si confronta con una drammatica verità legata alla morte di un amico di famiglia, che sconvolgerà la sua vita e quella della sua amata. Nell’ultimo episodio, infine, una ragazza cresciuta all’estero torna in Iran dallo zio per scoprire una verità legata a quell’uomo e a suo padre, che cambierà dolorosamente la sua prospettiva delle cose. In ognuno di questi apologhi Rasoulof costruisce una tensione drammatica e psicologica che si traduce in un interrogativo morale, posto ai suoi personaggi in funzione del rapporto tra le imposizioni che subiscono e le scelte di coscienza che fanno. Come nei suoi film precedenti (Manuscripts Don’t Burn, A Man of Integrity, Goodbye), il rapporto tra lo sfondo sociale e istituzionale e la sfera privata delle persone diventa il campo di un conflitto che è tanto interiore, personale e identitario, quanto legato alle relazioni che intercorrono tra le persone, i ruoli, i punti di vista e le vite in generale. Rasoulof insiste su una messa in scena fortemente orientata nella focalizzazione narrativa, sulla quale basa i repentini salti di prospettiva che impostano il rapporto tra la verità dei personaggi e quella narrata e percepita dallo spettatore. C’è intensità e funzionalità nel suo cinema e Il male non esiste ha una precisione e un’efficacia davvero notevoli, che trovano una concreta sponda nel lavoro di scrittura e in quello con gli interpreti.