È a partire dalla musica che ci si rende conto che in questo Tutti i soldi del mondo qualcosa non va. Non perché sia in sé sbagliata la scelta dei motivi (Ridley Scott è sempre stato accurato e geniale in questo), ma per il modo in cui sono associate alle immagini, inserite di forza nelle situazioni e lasciate agire in totale disaccordo, come corpo estraneo che non ha quasi mai relazione con il ritmo, il tono o, semplicemente, il racconto. Non che questo basterebbe a salvare il film. Troppi sono gli stereotipi e le superficialità, senza contare una certa, imperdonabile, trascuratezza formale. La ricostruzione storica dell’Italia dei primi anni Settanta è il primo dei molti problemi. Non tanto Roma, quanto i romani, non tanto la Calabria e la Basilicata dei covi e dei nascondigli della ‘ndrangheta, quanto la frettolosa necessità di dipingere i rapitori come cupi malfattori, che devono obbedire a un ordine superiore ma poi si distraggono con la tarantella. Il male senza lo sforzo della sua analisi, tra Io non ho paura e Il codice Da Vinci. Quello che avrebbe potuto essere un film di riflessione anche politica su scala mondiale (il rapimento a Roma di Paul Getty III, nipote dell’allora uomo più ricco del mondo, tra Brigate rosse, terrorismo e crisi petrolifera), finisce ridotto al racconto raccapricciante di un vecchio miliardario, talmente legato alle cose e ai soldi, da non conoscere il valore di affetti e famiglia. Un Paul Getty vecchio e ottuso, orgoglioso e vendicativo al punto da usare il rapimento del nipote per chiudere i conti con la nuora, colpevole di aver voluto l’affidamento esclusivo dei tre figli nella causa di divorzio contro il marito tossicodipendente. Solo per dire quanto fosse ricca la materia e quante sfumature possibili offrisse, anche a voler/dover stravolgere alcune dinamiche (cosa che in sede di sceneggiatura hanno abbondantemente fatto David Scarpa e lo stesso Scott, cambiando dettagli, accorciando certi tempi, agendo, com’è giusto, nelle geografie dei luoghi).
L’impressione, invece, è quella che il creatore di Alien si sia accontentato di giocare con figurine prive di sviluppi psicologici, affidando l’intero film a schemi semplicistici privi di respiro. Ogni azione, infatti, procede meccanicamente, senza quasi tensione interna, il thriller sfiorato, la ricostruzione vintage, la Storia che fa capolino. Scena dopo scena è impossibile rintracciare l’idea di un progetto, che non può essere stato stravolto soltanto dalla discutibile sostituzione di Kevin Spacey con Christopher Plummer. Che poi i momenti migliori riguardano proprio la “rivalità” tra Gail Harris e il vecchio Getty, la dinamica di continua sfida che s’instaura fin dal loro primo incontro, essenziale ma perentorio, solido nel mettere a confronto i due opposti, non inconciliabili, anzi, brillanti nel tenersi testa, fronteggiandosi come in un gioco di resistenza. E il rapimento del giovane erede offre l’occasione per la più grande sfida tra i due, un braccio di ferro senza possibilità di sottrarsi, e, al centro di tutto, l’interrogativo costante su cosa davvero possa comprare il denaro.