Sono trascorsi esattamente vent’anni da quel Calvaire con cui Fabrice du Welz aveva esordito nel lungometraggio raccogliendo il plauso generale, ne sono passati invece quasi trenta dai tragici fatti del Mostro di Marcinelle, quando il Belgio era stato scosso dal rapimento di alcune bambine per un traffico di pedofilia dai contorni ancora poco chiari, ma che era arrivato fino ai vertici del potere istituzionale. Materia forte e al centro di questo Maldoror, con cui du Welz prende di petto il poliziesco raccontando l’impresa di Paul Chartier, assegnato a un’operazione segreta per trovare il rapitore di minorenni e che dallo scandalo viene inesorabilmente risucchiato. Seguendo un approccio immersivo tipico dell’irruenza stilistica che abbiamo ormai imparato a riconoscere, du Welz compone un affresco che non cerca tanto la ricostruzione filologica, quanto la possibilità di trascinare lo spettatore in un’esperienza al limite, mentre ossequia le sue influenze cinefile predilette – l’opening crawl cita ancora una volta Non aprite quella porta, un’autentica ossessione del regista. La prima parte mira così a definire i contorni della nuova vita di Chartier, proveniente da una famiglia criminale e vicino alla malavita locale, ma che poi ha fatto il grande salto della barricata indossando la divisa. Lo vediamo seguire la carriera con passione, formare al contempo una famiglia con la figlia di immigrati siciliani, fino al caso che potrebbe segnare la svolta, complice anche un peculiare momento storico che ha portato i principali corpi delle forze dell’ordine belgi a innescare una feroce rivalità reciproca: risolvere il caso può dunque regalare un prestigio particolare e costituire la definitiva occasione di riscatto, riconosciuta a livello non solo personale ma anche dell’intero corpo della Géndarmerie.
Al pari dello tusnami di Vinyan o della comunità folle del già citato Calvaire, l’indagine si rivela una discesa nell’ossessione e una via aperta al confronto diretto con l’apocalisse. Non tanto e non solo per la risonanza che il caso arriva ad avere e che scoperchia una rete di relazioni che affondano nei gangli del potere, ma anche e soprattutto per l’autentica perdita di lucidità di un protagonista che progressivamente lascia emergere i suoi demoni interiori – ovvero quelli che aveva tentato di scacciare ripudiando i legami familiari – fino a distruggere tutto quanto aveva fino a quel momento costruito. Per restituire questa perdita percettiva, du Welz affastella stili e fonti visive, dai filmati tv con cui i media raccontano la vicenda, alle visioni alterate del protagonista nei luoghi sordidi in cui si snoda l’indagine, fino all’effetto nebbia delle videocassette su cui sono registrate le violenze commesse ai danni delle bambine rapite. La conseguenza è un’autentica scomposizione dell’immagine, che si rispecchia in una realtà disgregata e per questo astratta nell’indeterminatezza del quadro generale. Ma du Welz la racconta, come già in passato, aggrappandosi all’estetica sordida dei corpi “sporcati” dalla terra e dal fango o smembrati dagli omicidi e dati in pasto ai maiali. Il risultato determina un racconto sovraccarico e in grado di sollecitare un’interessante vertigine percettiva, a iniziare dal titolo: ispirata a I canti di Maldoror del Conte di Lautréamont, l’operazione segreta in cui è coinvolto Chartier rievoca dalle nostre parti anche il mitico film perduto del regista surrealista Alberto Cavallone: un altro bell’esempio di risonanza fra il reale e l’astratto, insomma.