In un momento di quiete della missione a cui sono stati assegnati dal ricco Bly Tanaka/Hiroyuki Sanada, i protagonisti di Army of the Dead azzardano l’ipotesi di essere finiti in un loop temporale: qualcuno prima di loro è già passato per i cunicoli di quella Las Vegas trasformata in un inferno dall’apocalisse zombie, sempre allo scopo di recuperare i soldi custoditi in una cassaforte. È come se in quel frangente Zack Snyder volesse mettere le proverbiali mani avanti: il film percorre sentieri già battuti, anche se la percezione è quella di un prodotto originale. Era in fondo accaduto lo stesso con il precedente L’alba dei morti viventi, in cui il regista americano “inventava” gli zombie corridori, in realtà semplicemente innestando sul concept dei living dead quello degli infetti “pazzi” che lo stesso Romero aveva codificato ne La città verrà distrutta all’alba. La dichiarazione d’intenti sembra propedeutica a ottenere dallo spettatore il beneplacito per un film che si ponga soltanto quale divertito pastiche in cui ricombinare elementi già noti e in effetti, da questo versante, Army of the Dead non risparmia colpi: se le dinamiche tra i personaggi possono far pensare un po’ al Mucchio selvaggio e un po’ al Tesoro della Sierra Madre, la struttura si pone esattamente a metà tra 1997: Fuga da New York e Fantasmi da Marte, da cui proviene anche l’ottimo Richard Cetrone quale capo degli zombie. Se quindi L’alba dei morti viventi era una variazione su invenzioni romeriane, Army of the Dead lo è soprattutto sul patrimonio cinematografico di John Carpenter.
Partendo da questo assunto, Snyder dà vita a un film di forte allestimento scenico e coreografico, ma che intende porsi quale terreno di sperimentazioni: più che a un action-horror tradizionale, il film fa infatti pensare a una stand-up comedy, per i tempi in alcuni casi tirati troppo per le lunghe cercando di far fruttare gli spunti, in altri più rapidi quando ci si rende conto che l’attacco è buono e si possono affondare le mani nella singola situazione, mantenendo alti i giri. Non a caso la sensazione è di qualcosa che, pur avendo speso molte risorse per mettere in piedi una mitologia articolata nella sua “società degli zombie”, alla fin fine se ne disinteressa per stare addosso ai suoi personaggi, alle loro moine e alle loro ossessioni. A volte perdendo il bandolo della matassa in un mare di situazioni anche poco chiare, perché la mente è altrove. Nel rapporto padre-figlia ad esempio, che naturalmente non può non far pensare – come già nel precedente Justice League – a come Snyder stia consapevolmente elaborando il lutto che l’ha colpito dopo il suicidio della figlia Autumn e il non essere riuscito a salvarla: protezione e salvataggio nella dinamica tra Scott/Dave Bautista e Kate/Ella Purnell sono non a caso concetti ripetuti spesso e che vengono messi alla prova da una raffigurazione della morte chiaramente elaborata dalla città dei cadaveri viventi. Lo scenario dopotutto è quello di un mondo distratto e che distrae: ancorato ai principi di una realtà “di prima” (i soldi, la guerra) precipitata nel caos informativo e pandemico del (nostro) presente, tra negazionisti e approfittatori, Army of the Dead vuole porsi quale recupero dell’umanità in uno scenario che spinge a temere per il peggio e a guardare in faccia la fine (la bomba nucleare in arrivo).
L’impressione, insomma, è che al di là delle sperimentazioni e del pastiche, il film voglia dire di più, ma resti poi schiacciato da un’ambizione immeritata per una vicenda poco capace di reggerne il peso: poco fluido nell’innesto dei vari livelli narrativi, il film più che una riproposizione appare una degradazione di sentieri già battuti, e risulta in un certo qual modo “trattenuto”. Pochi i momenti in cui si libera davvero, come la bella sequenza dei titoli di testa (ormai un marchio di fabbrica per Snyder), dove il lavoro cromatico, dei tempi e degli spazi si unisce a una perfetta gestione del ritmo. Quello che poi manca al resto di una narrazione esageratamente spalmata sulle due ore e mezza di durata: il dono della sintesi che a un regista abituato alle director’s cut evidentemente manca, è forse uno degli elementi da riprendere da quella tradizione a cui naturalmente guarda.