Venezia81 – L’instabile termometro emotivo di Jouer avec le feu di Delphine e Muriel Coulin

Pierre è un operaio delle ferrovie, un passato da militante – sindacale, politico, insomma: un animale sociale – e un presente da padre a tempo pieno. Il suo ruolo pubblico è diventato privato, in una Lorena (curiosamente presente in due film francesi del Concorso di Venezia81, questo e Leurs enfants aprés eux dei fratelli Boukherma) che ricorda il suo passato attraverso lo sfondo sempre segnato dagli altiforni, testimoni di una storia di siderurgia e impegno, di duro lavoro e sentimenti semplici. Il suo figlio minore, Louis, è destinato a una brillante carriera universitaria, Parigi sullo sfondo, metropoli da conquistare con fatica e volontà. Il maggiore, Fus, sembra un po’ perso: promessa del calcio tendente al fallimento e incline a cattive frequentazioni che si manifestano sotto forma di un gruppo di giovani neonazisti in cui cerca solidità e protezione. Pierre, solidale per scelta e solitario per necessità, proverà a contrastare la deriva di Fus, ma il domino di una vita è pronto a presentare il suo conto dolorosissimo da digerire. In Jouer avec le feu, Delphine e Muriel Coulin – che già avevano affrontato universi e comunità chiuse, quasi compresse e costrette, in 17 filles e in Voir du pays – affrescano la caduta all’inferno di un uomo buono (con un termine modaiolo e a suo modo orribile si potrebbe definire “resiliente”) alle prese con un male che gli esplode accanto e con cui non sa come fare i conti. L’attenzione manifesta per il contesto sociale – Villerupt, periferia francese terra di costante immigrazione e il suo passato di duro lavoro e conclamata alienazione – traccia i contorni di una famiglia tutta maschile incapace, nonostante una palese determinazione, a limitare la fascinazione del male.

 

 
Non ci sono donne in questo film diretto da donne, e la loro assenza sembra creare un vortice alienato. Fus entra in un brutto giro, agisce secondo uno schema che lo sovrasta, pagherà le conseguenze. Il cuore di Pierre è diviso dallo schema quasi antitetico indossato dai due figli e forse imparerà sulla sua pelle la fatica di essere padre. Vincent Lindon – ormai assuefatto nella sua credibilità di uomo perbene in una società faticosa – incarna nelle sue rughe l’ossessione di rivendicare un proprio ruolo sociale, la fame di meritarsi una normalità condivisa e accettata. Il suo Pierre è energico e vitale, affettuoso e accogliente, rabbioso e storto: il problema è che la sua tenacia e il suo sincero amore paterno possono non bastare. Le Coulin si sbattono per rappresentare un angolo di Francia – e di Occidente – ancora capace di parlare (e di parlarci) nonostante le difficoltà. Descrivono un universo di consuetudini e legacci, ragionano su una marginalità fatta di gesti e lacrime e sangue.

 

 
Non nascondono la fascinazione per le derive umane, prima ancora che politiche, che infettano il senso di comunità. Però, nella ricerca consapevole dell’asciuttezza, rischiano un generale senso di depotenziamento. Il cinema, così intensamente civile, di Stéphane Brizé (per fare un esempio ovvio, dettato anche dalla presenza di Lindon) resta lontano. In Jouer avec le feu si analizzano coesioni e cadute umane, troppo umane, con partecipazione eclatante e con stile asettico. L’estetica del film è certamente riconoscibile, lo sguardo è partecipe, l’empatia è funzionale, lo stile è coerente. Però il film sembra incepparsi troppo spesso, la svolta processuale – conseguenza ineluttabile delle scelte scellerate di Fus – non risulta sempre calibrata, il termometro emotivo del film risulta instabile, la compassione appare silenziata. Intendiamoci, Jouer avec le feu è un film solido, ben girato e altrettanto bene interpretato, a cui però sembra mancare qualcosa. Anzi, forse, la preoccupazione di uno sguardo fin troppo oggettivo rischia di sedare il risultato: una storia emozionante che sceglie di sabotarsi, un materiale bollente che si raffredda oltre il limite. Sarebbe bastato poco per renderlo un grande film, invece in questa sospensione – incerta tra calore solidale e gelo morale, tra appassionata adesione e cerebrale distacco – rimane un ibrido. Un ibrido di gran classe, certo, ma pur sempre un ibrido. Un film solido a cui dire: “Peccato!” o “Mannaggia” o qualsiasi altra che lo possa risvegliare del tutto.