Venezia81 – Sospesi fra due mondi: L’orto americano, di Pupi Avati

Persiste la dimensione della memoria nel cinema di Pupi Avati, che nel tornare ancora una volta alle sue sfumature più “nere”, intesse un dialogo con la morte. Anzi, con i morti, ovvero i defunti di famiglia a cui si rivolge il protagonista de L’orto americano, ultima fatica dell’autore bolognese, presentata in anteprima a Venezia81 come film di chiusura fuori concorso. Sono loro che ispirano infatti al personaggio (che non ha nome) i romanzi con cui spera di diventare uno scrittore di successo, anche se questa abitudine di conversare con chi non c’è più gli ha pure attirato accuse di follia in passato, con tanto di breve detenzione in manicomio. Il ragazzo poi si sposta negli Stati Uniti, dove entra in contatto con una storia perfetta per uno dei suoi libri. La vicina di casa aveva infatti una figlia che lui stesso aveva incontrato per un attimo in Italia dove lei prestava servizio con le truppe americane alleate (siamo nell’immediato dopoguerra), solo che ora è scomparsa. Così, indagando per conto suo, il giovane riesce a trovare un collegamento con i delitti di un assassino seriale che ha già fatto tre vittime nella provincia romagnola. Che sia lei la quarta? Quello del dialogo con chi non c’è più è un’usanza che Avati ha attribuito a sé stesso nell’incontro pubblico che ha anticipato la proiezione veneziana, come a voler ribadire ancora una volta quella fusione tra vita e cinema a cui ha sempre attinto. Anche per questo, L’orto americano oscilla sempre fra dimensioni duali: l’autobiografia e la fiction, gli Stati Uniti e l’Italia, ma anche il thriller giudiziario e il dramma personale, fino a fondere gli strati di realtà, suggerendo che l’intera vicenda potrebbe essere sì il frutto di un’attenta detection del personaggio, ma anche forse una sua allucinazione, lui che è abituato a confondere morte e vita, ispirazione letteraria e verità, da uomo sano che si prende cura di un’anziana malata com’è, solo per poi diventare paziente di manicomi in cui sono gli altri folli quelli che lo prendono sul serio.

 

 

Se la scansione narrativa sembra privilegiare a sua volta un dualismo fra una prima parte più attinente ai codici del giallo e una seconda più horror, con l’intermezzo giudiziario a fare da spartiacque, è entusiasmante il modo in cui i contorni del reale si fanno via via sempre più rarefatti e dunque inafferrabili e spaventosi. Come un gatto di Schrodinger cinefilo, L’orto americano è perciò al contempo un giallo convenzionale – lo scriviamo subito: l’assassino è abbastanza prevedibile e in una certa misura “pre-visto” e annunciato dal regista stesso – ma anche un enigma che nega una soluzione definita. Diversamente dalle opere gotiche che lo hanno reso più celebre (a iniziare dalla celebre Casa dalle finestre che ridono per giungere al più recente Il Signor Diavolo), l’esplorazione del lato oscuro della realtà non è più soltanto questione di scoperchiare il vaso dei misteri, ma è interrogazione sulla stessa natura (ovviamente maligna) del reale e sulla forza affabulatoria delle immagini e della parola – oltre ad avere uno scrittore come protagonista, il film è tratto dall’omonimo romanzo scritto dallo stesso Avati. Forte di una fotografia in bianco e nero che restituisce prima un’America più livida e hitchcockiana e poi una Romagna che ha la consistenza di terra, macerie e mattoni, fino a stemperarsi negli scenari nebbiosi delle zone fluviali, L’orto americano è ammirevole per l’atto di fede verso il fantastico inteso non come dimensione altra in cui far fiorire le visioni, ma quale porta di accesso e dialogo (im)possibile fra mondi opposti, la vita e la morte. É per questo motivo che, soprattutto la parte finale, appare tanto evocativa e oscura quanto dotata di un autentico senso del meraviglioso, anche e soprattutto per la sospensione su cui Avati dimostra di voler persistere e restare.