Les Sauteurs di Siebert, Wagner e Sidibé: immagini e immaginario al di là della rete

Melilla: già il posto in sé è un salto (giurisdizionale) sul mare di Alborán, tra la costa marocchina e quella spagnola, sì insomma un porto franco della Spagna sulla costa del Marocco. Un salto logico geopolitico (uno dei tanti) che trattiene in sé la scansione quotidiana dell’altrove sognato (l’Eldorado, dice uno dei protagonisti) da chi a Melilla ci è arrivato per trovare l’Europa al di qua del mare, solo un passo al di là della triplice recinzione che separa la parte marocchina da quella spagnola. Les Sauteurs, i saltatori, sono loro: bivaccano sul monte Gurugù come una tribù che attende il momento giusto per portare l’assalto al muro, scavalcarlo, basta anche solo la prima recinzione e poi si è in territorio spagnolo e non si potrebbe più essere respinti. Ma le guardie marocchine non vanno troppo per il sottile e ogni assalto è per i Sauteurs un duro colpo, la sofferenza fisica delle botte che segna il corpo e quella morale che segna lo spirito, senza fiaccarlo davvero. Questa è la scena, questa la narrazione, che però in Les Sauteurs, il film che Moritz Siebert e Estephan Wagner (tedesco il primo, cileno con formazione tedesca il secondo) hanno affidato al malese Abou Bakar Sidibé, è a sua volta un salto, quasi un “jump cut” che lascia fuori dalle immagini proprio l’azione centrale, lo scavalcamento in sé: come se in un western non ci fosse l’assalto al fortino da parte degli apache…

Non una mancanza, però, ma una nettissima sospensione, che attiene al progetto del film in sé: una sorta di documentario per interposta persona, con gli autori, Siebert e Wagner, che affidano una telecamera ad Abou Bakar Sidibé, che sul Gurugù ci è arrivato assieme ad atri Sauteurs e sta lì in attesa di riuscire a passare dall’altra parte. E Sidibé diventa il protagonista e l’operatore, sguardo e corpo in azione. Per cui il focus delle sue riprese è tutto sul tempo dell’attesa, sulla scansione di uno scenario in penombra, sotterraneo, stretto tra legami forti e attese di fughe, dinamiche quasi tribali, che guardano all’orizzonte di Melilla, al mare lontano, attraverso il filtro della recinzione da superare. Sidibé prende progressivamente confidenza col mezzo, inizia a pensare mentre filma, come dice lui stesso, ma in realtà non è tanto questo scarto a fare il film, perché Les Sauteurs ha la sua forza piuttosto nel rispecchiamento tra scenari che il dispositivo della macchina da presa affidata a uno dei protagonisti innesca.  La comunità dei Sauteurs, l’accampamento sul Gurugù, l’ossessione per la triplice rete da superare, la consapevolezza della sofferenza che questo atto provocherà, il bisogno di tenersi uniti, le strategie, i momenti di relax… La cosa che più colpisce è che lo sguardo di Sibedé si fissa prima sulla dolcezza della relazione in atto e si nutre poi anche di un immaginario che è fortemente cinematografico. Questo film lavora sul classico POV ma lo scavalca nella gestione di uno scenario che per qualche motivo (che imprinting cinematografico avranno i Sauteurs giunti ai confini dell’Europa?) diventa lo spettro del Cinema in tutti i suoi generi… La nebbia nasconde il pericolo come in Matrix, dice uno dei protagonisti nella scena più bella del film. E poi corpi che si lavano, le partite a calcio, i pasti attorno al fuoco, l’orizzonte della città visto dall’alto con Whitney Huston (“I Will Always Love You”) che risuona nelle cuffie, direttamente da Guardia del corpo (guarda caso un film che sul perimetro da difendere e violare ci lavorava mica poco…). E il tradimento fordiano, la punizione attesa, la fuga e la liberazione… Su tutto questo c’è poi lo sguardo glaciale delle altre telecamere, quelle a infrarossi che sorvegliano la recinzione e la vallata, occhio davvero matrix in cui le figure sono pixel luminosi nel buio e l’azione fondativa, lo scavalcamento, si raggela nella distanza impassibile della documentazione ma anche nella visione distopica. È come se il Cinema divenisse filtro di una documentazione dell’umanità in transito che raramente ci è apparsa così nitida, empatica, priva di filtri e mediazionii: la prova che il Cinema, in tutti i suoi stati, ha in sé la verità della vita e la sa far funzionare perfettamente. Les Sauteurs era al Forum della Berlinale 2016 (premiato dalla giuria ecumenica) e ora ne cura la distribuzione in Italia lo ZaLab di Andrea Segre.