Il cinema di Xavier Dolan è aggressivo ed esagerato, sa cogliere il punto di un discorso che asseconda ragione e sentimento e non concede nulla allo spettatore, che, anzi, non può che perdersi in questo universo di colori, raffinatezza compositiva e impeto. Diviso, così, tra due poli opposti è Laurence Anyway, terzo film del talentuoso e giovanissimo regista canadese, che esce solo ora nelle sale italiane (il film è del 2012, distribuisce Movies Inspired), in attesa di vedere l’ultimo It’s Only the End of the World, insignito del Gran Premio della Giuria all’ultimo festival di Cannes. Un senso di agitazione e bellezza pervade Laurence Anyway, storia di un amore folle tra un uomo, che finalmente rivela a se stesso e agli altri di sentirsi profondamente donna, e la sua fidanzata, Fred, regista impulsiva e passionale, anche lei divisa tra la potenza dei sentimenti e il desiderio di normalità. Il film è una poesia aspra e ruvida di bellezza e crudeltà, di sbalzi repentini, eccessi e aggressioni continue allo/dello sguardo. Si tratta di un andamento ondivago e violento, come violenta è la vicenda dei due protaginisti, a loro volta attraversati da tempeste interiori irraccontabili altrimenti, se non con esplosioni di segni e allegorie, rivoluzioni identitarie che lasciano il segno dentro e fuori.
Colori sgargianti, andirivieni temporale, un racconto tutt’altro che lineare, diviso com’è tra diversi livelli, il presente, il passato, i ricordi, i pensieri che fluttuano e si attorcigliano. Libertà e prigionia in una storia che dura dieci anni. Da quando Laurence confessa il suo desiderio di essere donna, a quando, dopo inevitabili traversie, torna a Monreal per raccontarsi ad una giornalista. La scommessa vinta da Dolan, però, qui, non è tanto quella di descrivere le tappe dolorose di un cambiamento da maschile a femminile, ma di dare ad esso una forma universale, senza gli stereotipi del genere. Perché Laurence (Melvinn Poupaud) continua ad amare Fred (Suzanne Clément) anche in abiti femminili, mentre Fred si ribella, fugge, torna e scappa nuovamente, pur amando Laurence, nonostante i suoi abiti, appunto. Riflessione sgagherata sull’amore e sulla vita, vista dal di dentro, come se si fosse piazzata la macchina da presa dentro i pensieri dei protagonisti. Ecco spiegate le dissonanze, gli eccessi, le contraddizioni (a partire dalla compresenza di Beethoven, Mahler e Brahms) quelle che si affollano tra desiderio e paura: gli occhi si confondono di fronte al mondo e lo vedono in modo diverso, attraversato da quella instabilità che li turba interiormente. L’esercizio stilistico è quello di portare all’esterno l’interno, esibire ciò che è nascosto, e quindi inventarlo con forme quasi irreali e allusive. Una farfalla che esce dalla bocca di Laurence, una pioggia di abiti multicolori in un paesaggio invernale, brillante e luminoso. Non importa il grado di realtà. Il risultato è necessariamente esasperazione estetizzante che, però, con levità, si affolla di senso. Libertà estrema padroneggiata con irriverenza e attenzione. Le regole da seguire e quelle da trasgredire sono calcolate nel più intimo dettaglio. Lo stile si arricchisce di sregolatezza e il racconto offre spunti appena accennati e poi lasciati decantare. Non occorre esaurire il discorso, anzi, la sospensione ne arricchisce il tessuto e si fa originale e spumenggiante, imprendibile proprio come la lingua usata in questo film, il québecoise, che mescola francese con espressioni inglesi e, ancora una volta ci fa ritrovare dentro il film ciò che appartiene alla sua forma.