Un melodramma/thriller che cresce su uno strato sottile di umanità, politica e antimilitarismo, che si colora vellutato e scolora ogni volta che si deve tornare indietro, alla storia, quella del giovane soldato tedesco Frantz, che, morto in una trincea della Grande Guerra, rivive nei ricordi e nel dolore di chi ha lasciato: madre, padre, promessa sposa e il suo stesso assassino, che si rivela, però, lentamente, infrangendo via via una serie di false piste appena accennate, forse, per sottolineare le infinite possibilità verso cui può tendere una storia (e con essa i suoi protagonisti). L’invenzione del racconto, la moltiplicazione delle ipotesi, il doppio, la circolarità cui è inutile sottrarsi, rappresentano nelle mani del regista francese materia viva da studiare, come fossero enigmi da risolvere. È questo che fanno tutti in Frantz, dove il tempo sembra essersi fermato, sospeso nell’inconfessato tentativo di vedere ciò che nessuno ha visto, di sapere ciò che nessuno di loro sa. E quindi l’arrivo di Adrien, violinista francese, ex soldato tormentato da un triste segreto, è il soggetto perfetto per distogliere Anna e i coniugi Hoffmeister dal sommesso e ottuso ripetersi di quello stesso dolore che è diventato la loro vita. Adrien si finge quello che non è, ma improvvisando come un attore di teatro popolare. Coglie le suggestioni che si annidano in un’espressione del volto, nei silenzi, nelle intonazioni della voce, e mette in scena il suo personaggio, l’amico del caro Frantz Hoffmeister, fidanzato di Anna, morto in guerra dopo aver scritto una lettera toccante e appassionata. La sua vita così, contagia, nonostante la guerra, tutti quelli che sfiora, a partire dal suo uccisore, l’altrettanto giovane Adrien che in quella trincea spara senza quasi accorgersene. Ma questa è una verità celata a lungo, e intanto la vita si insinua in questo quadro scolorito. Si tratta di palpiti del cuore, il sangue che si espande sotto la pelle, il corpo che si riappropria della sua fisicità.
Con Frantz François Ozon lascia la frizzante e calcolata satira sociale per dedicarsi ad un progetto emozionante ed intenso, ispirato al film di Lubitsch L’uomo che ho ucciso, del 1932, a sua volta tratto dalla piéce teatrale Broken Lullaby di Maurice Rostand. Un gioco attento e raffinato sulla messa nello spazio dei personaggi, i loro movimenti pensati con attenzione e talvolta lesinati, fino quasi all’immobilità, i volti silenziosi e assorti, le lacrime, la rabbia. Tutto passa attraverso un racconto nel racconto, che si piega e si ramifica, procede di qualche passo, per poi restare di nuovo sospeso. Saputa la verità (Adrien non è l’amico francese di Frantz, venuto in Germania per piangere sulla sua tomba, ma il soldato che l’ha ucciso e che ora piange se stesso e il suo gesto su quella stessa tomba) Anna sembra uscire dal suo circolo vizioso, ma poi vi rientra, in un altro contesto, ugualmente destinato a avvolgerla. Frantz è un film sull’assenza e sull’improvvisa interruzione dei gesti, che il cinema ha la capità di evocare. Un film sulla menzogna e sui segreti, sulla difficile gestione dei sentimenti nella confusa retorica da dopoguerra, tra vincitori e vinti, popoli feriti e offesti che sembrano guardarsi allo specchio, somigliandosi senza potersi riconoscere. Un film sulla riconciliazione, infine, vista secondo una prospettiva capovolta e contraria, ma efficace e irresistibile nel suo fluire necessario.