Il titolo del documentario di Ron Howard sui Fab Four di Liverpool è suggerito da una delle prime hit della band inglese: The Beatles – Eight days a week (ovvero otto giorni a settimana) sintetizza l’iperbole dei primi, ruggenti anni del loro incredibile successo planetario, quando la misura dell’improvvisa popolarità assunse proporzioni inattese, oltre i limiti immaginabili, divenendo a metà degli anni ’60 un fenomeno epocale tanto dirompente da imprimere segni profondi in una società in mutamento, nel pubblico in isterico delirio, e ancora più indelebilmente nei modi di intendere la fruizione e il business della musica. Tra le prime esibizioni al Cavern Club di Liverpool e il mega concerto da 55mila spettatori allo Shea Stadium di New York, pietra miliare della storia del rock, ci sono pochissimi anni, e tanti bastarono ai Beatles per scalare le classifiche e conquistare intere masse di fan accanite e fuori controllo in preda alla beatlemania, tra pianti disperati, urla e svenimenti che spesso mettevano a dura prova persino le forze dell’ordine, del tutto impreparate a gestire folle di ragazzine in fregola. Tutto questo caos e il clamore mediatico sono ben testimoniati nei filmati di repertorio con i quali Howard, che aveva già diretto un documentario musicale – Made in America – tre anni fa, ci accompagna attraverso un preciso arco temporale, lasciando alle immagini, arricchite da numeroso materiale inedito, il compito di tracciare la scia luminosa della band dal primo LP Please Please Me sino al punto di svolta – il concerto al Candlestick Park di San Francisco nel 1966 – che li vide abbandonare i palcoscenici e dedicarsi esclusivamente all’evoluzione, soprattutto in termini qualitativi, della propria musica.
È infatti prima di tutto cronachistico il documentario di Howard. L’enorme quantità di materiale d’epoca a cui attingere, incluso quello ritrovato nell’ultimo decennio, gli ha permesso di concentrarsi essenzialmente sulla descrizione dell’ascesa repentina e dell’impatto senza precedenti che ebbero sul pubblico l’entusiasmo e la sfrontatezza di un gruppetto di giovani divertiti e a proprio agio sotto i riflettori. L’occhio dei media, che insistevano con morboso interesse su ogni attimo della loro vita, è il mezzo attraverso cui il regista testimonia quasi con piglio sociologico quello che fu l’effetto Beatles sulle masse, raccontandoci di riflesso anche il punto di vista dei ragazzi alle prese con una celebrità non del tutto compresa, basti pensare all’intervista in cui Paul McCartney, alla precisa domanda di un giornalista che gli chiedeva che ruolo avrebbero avuto i Beatles nella cultura occidentale, rispose con schiettezza “non si tratta di cultura, ma di una gran risata”. Uno sguardo, quello di Ron Howard, che però resta sempre all’esterno degli avvenimenti: dal vestirsi allo stesso modo (semplice ma geniale idea del manager Brian Epstein) fino alle ultime dichiarazioni provocatorie (“Siamo più famosi di Gesù” ebbe a dire Lennon) e alla necessità di ritornare a lavorare in studio, il documentario si fa solo spettatore, mai indagatore, neppure quando il regista ci mette dinanzi alle contraddizioni di una società pronta a rinnegare con ferocia ciò che aveva osannato (i dischi bruciati nei falò, come una rappresentazione di un altro possibile Fahrenheit 451), o alla questione dei diritti civili in un’America che faceva i conti con la segregazione razziale.
Se allora il pregio di questo progetto è quello di imporsi come dettagliato documento storico, registrazione fenomenologica di un caso unico della storia del secolo scorso, il difetto più evidente sta tutto nel non voler mai valicare il confine dell’immagine mediatica oltre una certa soglia. Proprio quando la vicenda dei Beatles assume un profilo più intimista, aprendo anche alla dialettica interna al gruppo, e la musica diventa terreno di arte e sperimentazione (da Sgt. Pepper in poi…), la narrazione si arresta, declinando in modo corrivo i successivi anni. Si tralasciano così gli spunti più problematici del controllo di un successo irripetibile, dall’allargamento alle relative compagne all’infatuazione per altre culture e religioni. Il regista, al contrario, diverge la rotta e ci trasporta su quel tetto della Apple Records dove i Fab Four nel 1969 tennero l’ultimo concerto della loro carriera, quando ormai le relazioni interne erano già deteriorate e lo scioglimento si profilava all’orizzonte. Neppure le nuove interviste a Paul, Ringo e altre personalità dello spettacolo, o i 30 minuti inediti del concerto allo Shea Stadium in coda al film, riescono a colmare un’assenza che avrebbe garantito una lettura più globale, al di là della sua fenomenologia sociale, dove la genialità artistica e la relativa fragilità umana avrebbero permesso di cogliere come quattro amici di Liverpool siano stati in grado di cambiare il mondo. Non solo quello musicale.