Ispirandosi ad una storia vera adattata per il teatro da Stefano Massini (7 minuti: consiglio di fabbrica) e ora riscritta per il grande schermo dallo stesso Massini con Toni Trupia, torna dietro la macchina da presa Michele Placido che, alla sua recente esperienza in Francia, deve probabilmente la sua nuova e spiazzante sobrietà, teatrale, certo, ma anche pungente ed essenziale. Undici donne arrabbiate sono le protagoniste di questo 7 minuti (che si rifà nello schema della messa in scena, per stessa ammissione del regista al film di Sydney Lumet La parola ai giurati, con un cast da far girare la testa: Ottavia Piccolo, Ambra Agiolini, Fiorella Mannoia, Violante Placido, Cristiana Capotondi, Clémence Poésy, Sabine Timoteo, Anne Consigny, e i tre fratelli Placido, che interpretano i tre fratelli proprietari della fabbrica tessile al centro delle contestazioni. Un film di interni e di parole, di attese e di ripensamenti, a svelare le sottili “macchinazioni” che sempre si consumano ai danni degli operai. Il segreto è minmizzare, far apparire insignificanti dettagli sostanziali, nella filosofia del prendere e non dare, come accade da sempre nel rapporto tra dipendenti e datori di lavoro. Questi sette minuti del titolo, dunque, diventano il punto su cui si soffermano loro malgrado le undici operaie, nel giorno in cui la proprietà passa dagli italiani ai francesi. La tensione è alle stelle. Ci si aspetta di dover lottare contro licenziamenti, cassa integrazione, delocalizzazione, invece c’è una sola condizione: la pausa pranzo che dovrà durare sette minuti in meno. Ecco il tranello. Il poco che nasconde molto, perché 7 minuti, moltiplicati per tutte le trecento operaie della fabbrica, diventano centinaia di ore, posti di lavoro possibili e diritti, ottenuti a caro prezzo, che vengono annullati in un attimo, senza che nessuno se ne accorga.
La materia è scottante e la forma pensata e volutamente teatrale, come a voler mantenere la frontalità del palcoscenico, l’improvvisazione non tanto nei dialoghi, quanto di un senso che cresce dentro una bolla di sapone e accerchia le protagoniste. Tutto è fatto per esaltare queste undici attrici, le loro espressioni e i brevi monologhi affidati ad ognuna. Placido preferisce la gestualità, anche esasperata, che contrasta con certi silenzi più che mai reali, inserisce uno sguardo datato sulla fabbrica, la contrattazione quasi famigliare in fase di vendita, lo spuntino con la mozzarella per celebrare il contratto firmato, la suspance delle lettere da consegnare alle rappresentanti sindacali, gli spazi così sguarniti da sembrare abbandonati. Come fosse una trattativa di vent’anni fa catapultata nel nostro mondo di oggi, che per la prima volta conosce la paura, come fa notare l’operaia nera. Perché anche l’oggi è obsoleto a scapito di un mondo che tornerà indietro per andare avanti, eliminando l’ideologia, e, pezzo dopo pezzo, tutti i passi compiuti per non eccedere negli squilibri tra potere e forza lavoro. Non a caso si discute del tempo, il più importante dei privilegi, che il nostro tempo cerca di svilire. Ecco il più grande pregio di questo film: puntare perentoriamente il dito su un dettaglio, sulla favola che ci hanno raccontato dei diritti uguali per tutti, delle tutele garantite, e non distogliere mai l’attenzione, neppure per raccontare le vite di queste undici donne, di cui sappiamo poco. Si parte forti di questo miraggio e si finisce col constatare che in quei semplici sette minuti c’è tutta la fragilità che abbiamo acquistato negli anni del disimpegno e della confusione programmata. Ci ritroviamo più smarriti di prima, vittime del ricatto più tacito della storia recente, e lo sottolinea Placido, nel voler filmare più a lungo i primi pian delle donne che ascoltano rispetto a quelle che parlano, nel filmare silenzi di rassegnazione che sembrano insostenibili.