Ricomincio da tre: potrebbe citare il compianto Troisi la nuova avventura su ruote della Pixar, non fosse che stavolta per Saetta McQueen le cose si fanno complicate. Archiviate le vittorie su circuito del primo capitolo, e le avventure in salsa spy del secondo, sembra arrivato il momento di appendere le gomme al chiodo per lasciare il passo a una nuova generazione di campioni. Il che naturalmente non può andare a genio a chi è abituato a vincere e a vedere nel tempo soltanto un avversario da battere sul filo del cronometro. Il tempo e il suo scorrere, dopotutto, è il reale oggetto del contendere di Cars 3, che al pari di un’altra significativa opera terza – il Toy Story 3 di Lee Unkrich – tiene conto del rapporto di complicità ormai stabilitosi fra il pubblico e i suoi beniamini nel corso degli anni, e si permette per questo di entrare in profondità nei legami creati sin dal principio. Se, infatti, nel secondo capitolo, la gestione frettolosa degli eventi sembrava lasciare in secondo piano il vissuto dei protagonisti, stavolta l’azione è confinata in pochi e studiati momenti, per permettere una migliore ricognizione intorno a quanto McQueen ha costruito e seminato nel corso della sua esistenza. In particolare il rapporto con il mentore Doc Hudson, visto nel primo capitolo e poi uscito prematuramente di scena a causa della scomparsa del grande Paul Newman, doppiatore nella versione originale.
Ciò che non c’è più e il suo lascito diventa così il terreno di confronto per un campione che, esaurita la spinta giovanile dei successi, può fermarsi a riflettere e a comprendere come la vita sia fatta di età differenti che spingono a scelte diverse. Il discorso è affrontato senza pietismi arrendevoli o nostalgie canaglie, ma con una sobrietà incline ad accettare la meraviglia insita nelle infinite possibilità offerte dal tempo in vari stadi dell’esistenza, che riecheggia la lezione di Bambi (opera, per inciso, straordinariamente seminale e liquidata spesso con banalità come semplicemente drammatica). L’ostinazione nel vivere un tempo che non è il proprio è ciò che causa dunque la crisi di McQueen, salvo poi rovesciarsi con lo stesso impeto sorprendente della capriola compiuta dal giovane Hudson sulla pista. Allo stesso modo, il modulo narrativo offre una sorprendente torsione che trasforma il racconto della crisi di mezza età nella scoperta di una rinascita figlia della consapevolezza che si possono abbracciare nuove sfide. Il film, in questo senso, è costellato da numerosi cambi di prospettiva: il temuto campione che diventa un veterano guardato con patetismo dai colleghi; la personal trainer che sogna di essere pilota; gli anziani che diventano mentori; i coprotagonisti che ottengono la centralità; il team avversario che sponsorizzerà la nuova stella. La torsione maggiore è anche quella che ridisegna le coordinate di una saga che sembrava stentare a trovare un proprio baricentro sbilanciandosi troppo verso l’azione sfrenata (Cars 2 resta uno dei titoli più frenetici della Pixar), in favore di un ritmo molto ragionato, con ampie porzioni di dialogo, complice forse il cambio di regia fra John Lasseter e Brian Fee, che guadagna il posto da regista dopo una militanza decennale nel reparto storyboard. Il recupero della memoria e della tradizione, storicamente tipico della scuola Disney, riesce così a trovare un punto d’incontro con la spinta alla novità che ha sempre caratterizzato la gestione Pixar, consegnandoci un capitolo maturo e che nel raccontare la fine di una storia ne è al contempo il reinizio.