Jupiter Jones è un’immigrata russa che pulisce bagni a Chicago. È nata apolide, nella pancia di una nave, durante il viaggio intrapreso dalla madre, in fuga da San Pietroburgo dopo che il marito, uomo dolce con la passione per l’astronomia, è stato ucciso in una rapina. Jupiter e la mamma vivono in una sorta di piccola comunità familare, maschilista e caciarona, e sembrano non aspettarsi nulla dal futuro. Per comprarsi un telescopio, ricordo dell’amato papà mai conosciuto, la ragazza è disposta a vendere i suoi ovuli, grazie all’intercessione di un losco cugino. Ma Jupiter ancora non sa di essere la reincarnazione genetica designata della matriarca di una delle famiglie più potenti dell’universo, sulla cui eredità – interi pianeti le cui popolazioni sono usate come foraggio da raccolto, carni da succhiare per la creazione di un siero capace di regalare l’immortalità – si è scatenata una battaglia tra i tre figli. E siamo solo all’inizio: per scardinare il piano malefico dell’aristocrazia galattica, una sorta di oligarchia darwinista che tende all’assoluto sulla pelle dei più deboli, Jupiter si allea con un licantropo progettato in laboratorio per essere guerriero, ma in realtà dotato di un cuore grande così.
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Jupiter – Il destino dell’universo inizia alternando il racconto dei due mondi – la terra ignara delle dinamiche celesti e i clan dei potenti che organizzano il loro privilegio muovendo implacabili i fili dell’universo – per poi seguire le avventure della sua eroina dal nome planetario, concreto punto d’incontro tra terra e cielo (tra umano e divino, con predilezione per il primo elemento), incerta su quale traccia del proprio destino dover seguire. I Wachowski giocano sull’accumulo, estremizzano ogni scelta stilistica, ostentano orgoglio per il loro ottovolante che si impenna verso ambizioni alte e si inabissa in riferimenti bassi e bassissimi. Il mondo visuale immaginato dai registi è un frullato di intuizioni futuribili che cita e inventa, mastica e sputa. Il messaggio è quello di uno smaccato umanesimo pauperista, quasi infantile nel mettere in scena un universo rigidamente classista e basato su obbedienza cieca e sfruttamento di popoli – una visione semplicistica ma non così disconnessa dal nostro presente – che perde la sua connotazione spaziotemporale per provare a costruire un immaginario che unisca spazi e tempi inconciliabili.
Un futuro assoluto che tutto comprende e tutto assorbe, come un buco nero. L’aristocrazia galattica è un incontro tra reminiscenze decadenti delle corti tardo-imperiali romane (nel décor, negli abiti, nel gerarchico familismo sanguinario) e una gestione del potere standardizzata e feroce, fondata su uno sfruttamento tetragono delle masse che fa venire in mente il fantasmatico Stato Imperialista delle Multinazionali dell’immaginario brigatista. Jupiter non ha la pretesa onnisciente dell’irregolare e fascinoso Cloud Atlas, né la sua ieratica potenza. I Wachowski però sfidano il ridicolo con audacia, accostano scene da telenovela di quart’ordine a vertiginose sequenze d’azione, a volte debitrici (anche troppo) dei ricordi di Matrix, utilizzano canoni del cinema sci-fi (dal Soylent Green di Fleischer al pop anni ’80 di Flash Gordon) arrivando a rivendicare la possibilità di un cinema apodittico e autogiustificato. Non si intravede né il superomismo serioso della mitologia Marvel dei recenti blockbuster, né la sua ironica messa in scacco dei Guardiani della galassia. In Jupiter traspare però, nonostante la sua goffaggine ipertrofica e i troppi rettili alati, un delicato amore per i personaggi, uno sguardo che sfiora i corpi degli attori fino a costruire, improvvisamente, alcuni inspiegabili momenti di intensità. Una fantascienza tanto fracassona quanto umana a cui, nonostante la ripetuta tendenza all’involontaria parodia, non si può non volere almeno un po’ di bene.