Un giovane uomo s’infila una medaglia al collo e inizia a parlare a una platea di studenti, per poi incassare un modesto compenso in un altrettanto modesto ufficio della scuola. Vive in una casa squallida e va ad allenarsi in una palestra ordinaria. Non è una superstar di baseball basket football hockey (la sacra tetralogia dello sport professionistico americano) ma un wrestler, un umile lottatore, uno che ha il presente nei muscoli e il futuro ipotetico già scritto in una roulotte dei bassifondi. Ma quest’uomo ha vinto una medaglia d’oro alle Olimpiadi e vuole continuare a difendere i valori sacri dell’agonismo patriottico. Ed è proprio in quella palestra un po’ decrepita in cui combatte che sorge e tramonta il più dolente e sincero dei sogni americani. Mark Schultz (Channing Tatum) pensa di meritare di più dal suo paese, che a suo modo ha servito. A poco servono le rassicurazioni e le carezze che gli riserva il fratello maggiore David (Mark Ruffalo) con cui si allena, anche lui campione olimpico, apparentemente incorruttibile, ostentatamente pacificato. Mark invece è inquieto, nonostante la sua espressione mantenga sempre un’impassibilità bovina, che risalta su quella ciondolante massa di muscoli. David lo accudisce, lo protegge, lo educa. Il carattere dei due personaggi – e il loro rapporto – è subito definito da una magnifica scena di allenamento in cui l’aggressività della lotta incontra l’affetto fraterno, in cui la brutalità dei colpi si scioglie in una paradossale coreografia sportiva, una danza di botte, un relitto di purezza agonistica. Ma il diavolo tentatore si materializza presto con l’aspetto di John du Pont (Steve Carell in versione mefistofelica), un ricco magnate dell’industria che per capriccio vuole allestire un campo di allenamento per lottatori nei giardini della sua immensa tenuta. Un uomo che può supplire alla sua incapacità fisica semplicemente comprando atleti (corpi) da mettere in scena come in un teatrino.
Foxcatcher, opera terza di Bennett Miller, utilizza ancora una volta l’epica sportiva per raccontare altro: la mistica della vittoria e la sua lotta – un corpo a corpo, letteralmente – con il ghigno perverso del dollaro e del mondo capitalista che lo sostiene; in pratica l’intima essenza dell’America. Se in Moneyball il sogno del General Manager degli Oakland Athletics Billy Beane – atleta sopravvalutato e uomo irrisolto – era quello di sconfiggere le squadre più ricche attraverso una lettura statistica del gioco, sostituendo la quantità di denaro con la qualità dell’analisi, in Foxcatcher i protagonisti sono guidati da differenti ambizioni: una rivalsa umana e sociale prima ancora che economica per i perdenti, un ruolo di potere permanente che trascolora in morbosa sete di possesso con livide pulsioni sessuali per il ricco ereditiero. Sotto la scorza del film sportivo si nasconde un apologo morale dalle sfumature horror, uno studio sociale quasi darwinista in cui i valori morali sembrano implodere, lasciando un cumulo di macerie esistenziali. Foxcatcher è in fondo una messinscena che somiglia a una messa funebre, la cui soluzione è implicita nelle premesse. La regia di Miller è geometrica, rigorosa, con una lugubre solennità amplificata dalla sintonia degli interpreti. L’affresco è cupissimo: l’America, come Crono, è un padre che mangia i propri figli per mantenere il privilegio. L’incubo a stelle e strisce è un meccanismo implacabile in cui vengono stritolati i fratelli Schultz, vittime consapevoli di una società in cui il potere del denaro non fa prigionieri: immutabile nella sua crudeltà, in marcia inarrestabile verso il baratro protetto dall’ombra minacciosa di una bandiera.