Il sottotitolo “Chronik einer Sensucht” (letteralmente cronaca di una nostalgia) dice già tutto su questa ennesima incursione da parte di Edgar Reitz nella Storia della Germania. Dopo le ondate migratorie moderne, dall’Est Europa verso la Germania del dopo muro, si torna indietro al 1840, nel villaggio di Schabbach, quando la gente moriva di stenti e vedeva come unica possibile sopravvivenza l’emigrazione verso il lontano e leggendario Brasile (di cui si faceva già accenno in Heimat 1).
“Sensucht è una parola quasi intraducibile – dice Reitz – indica la nostalgia e lo struggimento per qualcosa che è altrove nel tempo e nello spazio. Implica, quindi, l’idea malinconica di un sogno ad occhi aperti, una visione inconsueta del mondo e delle cose, quella di cui si fa portatore Jakob Simon, nel suo modo così diverso di essere e di vivere, rispetto ai suoi famigliari e alla gente del villaggio. Era importante che fosse proprio lui, il suo sguardo, la sua visione, a dare la chiave di lettura del film”. L’inizio di L’altra Heimat ricorda certe immagini di John Ford, con le carovane di famiglie pronte ad emigrare e lasciare casa in cerca di fortuna ad Ovest. Anche qui le carovane attraversano l’orizzonte e invadono lo schermo di tristezza e gioia al tempo stesso, per lo spopolamento delle campagne un tempo fiorenti e per la scommessa di un futuro migliore. Li guarda andar via anche Jakob, e il suo sogno diventa viaggiare e scoprire i territori selvaggi dei libri. I suoi sono pensieri incantati e sonnambuli, persi dentro giornate in cui immagina paesaggi e animali, immerso in foreste esotiche, assorbito dalla lingua e dalle tradizioni degli indigeni del Brasile. Ma i suoi occhi vivaci scrutano ogni timido segno del progresso (che a Schabbach tarda ad arrivare, ma si mostra nella forma della macchina del vapore) e i desideri traboccano fino a inventare straordinarie conversazioni con gli uomini del Nuovo Mondo.
Nostalgia del futuro, dunque, di un mondo scomparso nel nulla, come precipitato negli abissi di un lago leggendario, come testimonia visivamente il rigoroso bianco e nero solo a tratti interrotto da macchie di colore. Imprevedibile finestra che si apre alle profondità della visione, nella prospettiva rigogliosa del futuro più prossimo. Perché in questo correre, imparare, vivere fino in fondo, senza lasciare nulla indietro alla vita, è inscritto il senso, anzi, lo slancio che accomuna a questa le precedenti (o successive) serie di Heimat. Come se la Storia fosse spinta in avanti dalla passione di Jakob, che corre a vedere più da vicino le due amiche nude, ma poi si copre gli occhi e le conquista parlando con innocenza del volo dei colibrì. Proprio lui che, euforico, lancia un vitalissimo urlo dalla cima di un’altura. Lo sguardo e il sogno sono rivoli in avanti, oltre il presente, oltre l’Europa. Proprio come la pietra d’agata che mostra nella sua trasparenza il mondo “a colori”.
Ma con l’immagine prende corpo la parola, e il suo potere di nominare le cose in tutte le lingue possibili. Questa la sfida di Jakob, questo l’incanto in cui immerge i suoi pensieri, come gli innumerevoli modi di dire verde nella lingua degli indios. Parole che gli servono per portare avanti la rivoluzione (confondendo magnificamente la sua utopia personale con quella collettiva di una maggiore giustizia sociale) e trasformarla in un sogno che condivide con i dotti linguisti dell’epoca. Ad un certo punto compare Alexander von Humboldt, l’agronomo, naturalista tedesco, che viaggiò a lungo in Sud America. Porta con sè uno strumento di misurazione con cui vede, da lontano un anziano contadino con un grande cappello. Si tratta di Werner Herzog e dello stesso Edgar Reitz. Il secondo indica al primo la strada e in un solo gesto si afferma il potere di un film straordinariamente povero, fatto di desiderio e di utopia, che descrive l’immaginario e lo scruta e lo abita con la leggerezza di un movimento continuo. La macchina da presa di Reitz, infatti, non si ferma mai. Segue i suoi personaggi, vaga nell’aria conferendo a tutto il film un’idea di sospensione e di leggerezza. “La macchina da presa doveva seguire lo sguardo e la frenesia del protagonista e per questo non poteva stare ferma. Abbiamo usato per tutto il film solo steady-cam o grandi gru, per sottolineare la fluidità del digitale che è di per sé straordinaria”, precisa ancora Reitz.