Chi è o, meglio, chi era Oroslan? Di lui si hanno poche informazioni e non si vede mai: nell’avvio della prima parte del film due persone lo trovano morto nella casa dove viveva da solo. Si tratta di un piccolo paese di montagna, tutti si conoscono, gli anziani ricevono ogni giorno un cestino con il pranzo, il bar è il punto di ritrovo, la vita scorre identica con il passare delle stagioni. Lì abitava Oroslan, protagonista assente in corpo, ma ben presente nelle voci di chi ne parla (e si parla tanto nella seconda e terza parte di questo breve lungometraggio), del nuovo lavoro di Matjaz Ivanisin (tra i suoi documentari, Playing Men, del 2017, girato in vari posti del Mediterraneo per indagare tradizioni di antichi giochi tramandati dagli uomini), che non casualmente prende il nome di quell’uomo senza immagine. La sua immagine bisogna ri-costruirla attraverso il ricordo del fratello, di alcuni abitanti che sono stati, più o meno, vicini a lui. Oroslan (in concorso nella sezione Cineasti del presente) è una di quelle opere difficilmente classificabili, che le classificazioni le rifuggono. Un film di ‘confine’, tratto da un racconto, in cui i generi si smarginano e rimane la potenza del cinema. È proprio la struttura adottata dal trentottenne cineasta sloveno a indicare l’originalità dell’approccio nel rappresentare un soggetto, un pre-testo, così scarno.
Oroslan è, nettamente, diviso in tre parti, che differiscono estremamente nella forma e nella narrazione, ma che non sono contrassegnate da capitoli. L’intuizione di Ivanisin è stata quella di lavorare con interventi nitidi sul montaggio e le sue variazioni. Ogni parte sfuma in una dissolvenza a nero, si congeda in quella maniera, lasciando che entrino in campo le immagini del segmento successivo o che, dentro l’ultima, il film si concluda (ma sui titoli di coda ri-compare nel sonoro il rumore di passi pesanti sulla strada, ovvero quelli dei due uomini che, nella prima parte, avevamo visto avviarsi verso l’abitazione di Oroslan). E, all’interno di ognuna delle parti, degli stacchi a nero, secchi o più morbidi a seconda della loro consistenza diegetica, punteggiano la chiusura di scene e dialoghi o di cose accennate come se fossero degli appunti visivi (l’immagine di una diga, di fotografie, di una stazione di benzina).
Non si parla quasi per nulla nella prima parte (la migliore), composta – con toni che uniscono dramma e commedia dell’assurdo – soprattutto da inquadrature del posto filmate in totali o piani ravvicinati. Poi, le cose cambiano e il film “muto” prende la parola con le lunghe conversazioni che vedono al centro il fratello di Oroslan. Arriva da un altro luogo e ri-evoca la morte del fratello (in tal modo le parole si uniscono alle immagini già mostrate di quel fatto, lo si “ri-vede”). Ivanisin mescola ancora le fonti girando in questa parte centrale (che è anche la più lunga) scene soprattutto in automobile, spostandosi dall’immobilità oppure creandone un’altra con una sorta di falsi movimenti. Lasciato il fratello in un bar, “salutato” dalla dissolvenza a nero, Oroslan torna a radicarsi nelle strade fangose e negli ambienti del paese, dando la parola, come testimoni, a un gruppo di persone del posto (alcune già incontrate, altre no), ognuno dando una personale interpretazione di chi fu quell’uomo. E ci si ri-trova “circolarmente” all’inizio, ad altri totali nel segno del silenzio e di una memoria che bisogna preservare e tramandare.