Un saggio imperdibile, un pamphlet necessario. Una ricognizione terrificante nel nulla di una nazione che ha percentuali ridicole di accesso alle mostre, ai musei, ai monumenti, ai siti archeologici, a teatro, ai concerti di musica classica (il 90% dei nostri concittadini non ha mai assistito a un concerto), solo il cinema si salva parzialmente dato che lo frequenta quasi il 50% degli abitanti. Con Ignorantocrazia – Perché in Italia non esiste la democrazi culturale (Bompiani, pag.253, euro 14) Gianni Canova ci racconta il disastro di “una società che dileggia la competenza, che afferma che chiunque può fare qualsiasi cosa, che sostiene l’equivalenza di tutti a prescindere dalle conoscenze, dallo studio, dalla performatività, finanche dal talento…” Ovvie le responsabilità di politici, media (sciagurata la gestione della tv pubblica all’inseguimento di quella commerciale), intellettuali e docenti, tutti trafitti dalla lucida analisi canoviana:”abbiamo coltivato un’idea di cultura solipsistica, snobisticamente criptica, del tutto indifferente al compito di diffondere il piacere della conoscenza”. In quest’ottica sorprende (e intriga) l’attacco al “feticismo pauperista” del neorealismo. Partendo dal fondamentale Vittorio Spinazzola di Cinema e pubblico. Lo spettacolo filmico in Italia 1945-1964:”il fallimento dell’operazione neorealista avviene proprio nel suo punto programmatico più ambizioso e delicato: la volontà di indurre un mutamento radicale nei rapporti fra cinema e pubblico, quali si esplicano negli spettacoli strutturati industrialmente”, Canova nota che il neorealismo ha rimosso la questione del pubblico, con gli autori che cercano legittimazione fra i loro pari. “Sono intellettuali che si rivolgono ad altri intellettuali. Circolo chiuso”. Il problema però è comune a tutto il cinema italiano del dopoguerra. Da un parte la critica si spende, elogia i propri film (quelli che ne giustificano l’esistenza), dall’altra il pubblico che nel passato premiava i film di Matarazzo, ieri la grande commedia all’italiana, ora segue l’unico che è sopravvissuto (Checco Zalone, il monarca, da 60 milioni di euro al box office, dello scomparso cinema medio). Oggi l’industria del cinema è diventata una delle tante delle industrie assistite, bisognerebbe avere il coraggio di deviare questo denaro pubblico verso l’emergenza educativa, per almeno iniziare la battaglia contro “l’analfabetismo filmico” e per l’educazione ai media. Canova mette il dito nella piaga quando nota che il nostro cinema soffre di strabismo del realismo che spinge i nostri registi ad occuparsi dei margini della compagine sociale nascondendosi dietro la motivazione ideologica di raccontare gli ultimi per evitare di portare in scena la borghesia italiana.
A me quello che impressione è che il cinema italiano non è più in grado se non in rarissimi casi (il solito Bellocchio e forse Sorrentino, Garrone, Guadagnino) di offrire una sintesi significativa, di determinare una realtà, di interpretare e stimolare l’immaginario di massa , il quale è frantumato, corporatizzato e procede a scatti e negazioni appoggiandosi completamente alla rete e ai social. C’è qualcuno che oggi è in grado di interpretare il mondo? Nessuno sembra avere una verità non provvisoria, fuori da genericità spesso insopportabili. Tutti si sentono in dovere di dire la propria, aumenta l’ambizione di pari passo con la incapacità di analizzare il reale e scoprirne le regole nuove (se ci sono) o prevederne le linee di tendenza. Nel nostro cinema i grandi sguardi totalizzanti non esistono, il presente sfugge ai registi, soprattutto quando si ha la pretesa di rendere un senso generale, di conseguenza gli spettatori fuggono dalle sale. Canova attacca la casta degli intellettuali per la loro “acrimoniosa battaglia contro tutto ciò che è popolare e commerciale (…) l’ennemisa strategia per continuare ad essere gli unici depositari della ricchezza, materiale e immateriale, che arte e cultura garantiscono a chi ne dispone”. Bisognerebbe ritornare in strada (pensiamo solo all’esperienza del Cinema America a Roma), svegliare le periferie, ripartire dai piccoli pezzi di mondo e rappresentarli onestamente. Si può fare.