Lo sappiamo bene, il burattino collodiano è un soggetto in conflitto con la sua natura di oggetto, con il destino che lo rende malleabile all’altrui volere, alla visione che gli altri hanno del ceppo che è stato. Collodi lo ha pensato come un modello esemplare da offrire all’infanzia, istintivamente disobbediente alla norma dell’età adulta. La sua naturale avversione all’obbedienza fa di lui il modello della libertà frustrata dal bisogno di essere accettati, dal desiderio di corrispondere alle attese della realtà, che lo pretende di carne e non di legno. Preso in sé e per sé, d’altro canto, Pinocchio è una figura dell’affabulazione che sta tra la materia e la forma, tra l’archetipo e la realtà. Sì, insomma, tra l’artificio del burattino inanimato e l’arte del burattinaio che lo anima. Ora, se la parabola di Pinocchio è quella che racconta lo scarto tra materia inanimata e forma animata, la versione di Matteo Garrone gioca piuttosto la carta del bisogno di essere accettato, che spinge il burattino di legno verso quell’umanità in carne e ossa nella quale si ritrova orfano di una madre che l’abbia partorito nel dolore e figlio di un padre che l’ha forgiato nella solitudine.
Garrone spinge sul passaggio di stato tra la dimensione organica e quella spirituale del suo Pinocchio. Collodi vede nel ciocco di legno le forme dell’uomo che viene al mondo nel segno del dissidio tra (colpevolizzata) libertà individuale e inerte soggiacenza allo stato delle cose. Le avventure del suo Pinocchio attraversano gli stadi canonici di una società che raccomanda la sottomissione all’ordine costituito del quotidiano dolore: miseria atavica, ruoli sociali imposti, illusione di libertà e progresso e prospettiva salvifica offerta solo come grazioso dono finale… Matteo Garrone, invece, vede nel suo Pinocchio l’ombra del bambino che cerca il suo posto nel mondo, la fragilità del bisogno di essere riconosciuti, accettati e amati. Il suo burattino è idealmente più vicino ai 400 colpi truffautiani che alle insistenze affabulatrici poste in essere nelle tante versioni cinematografiche precedenti. Il Pinocchio di Garrone mostra una dolcezza che infrange l’archetipo del burattino ribelle alle raccomandazioni del padre, alle lezioni del maestro, al buon senso del grillo, all’amore della fatina, e lo sospinge nella carne di una condizione umana condivisa, partecipe della vita, bisognosa della realtà dell’abbraccio paterno tanto quanto di quello dei suoi fratelli burattini, portato alla solidarietà, alla compassione, uno spirito empatico invece di un animo inconciliato.
Garrone preferisce percorrere con ovattato senso del fantastico la distanza che separa Pinocchio dal suo essere un’ombra tra le ombre di un mondo in cui la realtà dell’umanità e la fantasia della fiaba dialogano alla pari. Benigni Geppetto percorre cascine e campi come fosse un Mario Cioni ritrovato, cascame di una realtà immiserita affabulata nella rurale distanza dall’ordine costituito. E il suo atto creativo sovverte lo stato delle cose con la portata dell’amore, di cui il Pinocchio garroniano si fa espressione. Il burattino attraversa il mondo portando dolcezza, empatia, comprensione e compassione. Subisce l’inganno tanto quanto la sua incapacità di non corrispondere alla chiamata di chi lo vuole con sé (i fratelli burattini, Lucignolo, la ciurma dei paese dei balocchi). La materializzazione di un mondo popolato da figure anfibie, reali e fantastiche, dolcemente perturbanti, dotate di una ambiguità semantica arcimboldesca, corrisponde a un sentimento della realtà che ha sempre qualcosa di profondamente organico, pulsante di una vita profonda e molteplice, in cui la differenza e la difformità sono valori. Lo scarto tra universo fantastico e mondo reale è quasi indistinto e sta tutto nel passaggio tra la scelta di Pinocchio di ribaltare il suo destino e la corsa finale nei campi che lo porta, finalmente bambino in carne ed ossa, tra le braccia del padre. Come fosse un Antoine Doinel in fuga dal suo fermo immagine…