Nel 1939, la piccola Dorothy sognava un luogo oltre l’arcobaleno. Si immaginava qualcosa di diverso, più emozionante e meno grigio della monotonia della sua esistenza sapientemente ripresa in bianco e nero all’inizio de Il mago di Oz. Dopo il turbinio dell’uragano che la scombussola a più riprese, la fanciulla mette per la prima volta piede in un mondo fatato ricco di musica, colori, costumi e personaggi stravaganti. Una bellezza sensazionale in grado di lasciare a bocca aperta lei e tutti gli spettatori paganti intenti ad assistere allo spettacolo del Technicolor e a una proiezione che sapeva di magico.Crescendo però, la magia è destinata a svanire così come il tanto celebrato arcobaleno. Rupert Goold parte proprio da qui, da uno spettacolo teatrale intitolato, per l’appunto, End of the Rainbow. L’intento è quello di realizzare un biopic contemporaneo (focalizzato quindi su un limitato lasso temporale della biografia in questione) per reinterpretare il personaggio della Garland come quello di una ragazza a cavallo tra due mondi, incapace di mantenersi in equilibrio e destinata quindi a scivolare tra l’uno e l’altro senza soluzione di continuità.
La magia e la fine dell’illusione, il calore (e il colore) degli affetti e il freddo grigiore della solitudine, il talento artistico basato su una voce tanto potente quanto innata e il dirupo professionale legato proprio alla perdita di un simile dono. Sono questi gli opposti ai quali Judy (come preferisce farsi chiamare la diva) sembra costretta. Una star prestata al mondo dello spettacolo, dal quale mondo però sembra voler fuggire per poi lamentare un abbandono.
Goold tratta così la Garland come una vera e propria rockstar (cosa che probabilmente a suo tempo era) e le cuce addosso il più classico dei film biografici. Vizi e virtù, alcool e aforismi, matrimoni e divorzi, lusso e povertà, fame e fama. Addirittura, accogliendo la sfida di tratteggiare il personaggio unicamente in relazione all’ultima tourné teatrale alla quale prese parte prima della precoce scomparsa, il film gioca con lo spettatore lasciandolo attendere e logorare prima di sentire la hit per eccellenza. Solamente in chiusura, ovviamente, sarà infatti la volta di Somewhere Over the Rainbow. Un momento che gli spettatori (quelli presenti nel teatro londinese e quelli in sala) aspettavano più di tutti. Un momento che riesce a centrare l’obiettivo di lasciare il segno nel cuore del pubblico, grazie soprattutto all’intenso lavoro di una Renée Zellweger tanto ispirata quanto appassionata, ma che rimane decisamente fine a se stesso. Non c’è magia, in Judy. Goold scompone l’arcobaleno in tutti i suoi colori ma non riesce a ricucirli assieme, non riesce ad arrivare al termine del percorso, come suggerisce invece il titolo originale dell’opera, ma vi ci precipita al suo interno preferendo la via della retorica agiografia invece che di una più sensata, seppur rischiosa, interpretazione. Il film così accontenta tutti, detrattori e fan della star. Un’operazione ruffiana al punto giusto e indovinata per certi aspetti ma che, sotto la superficie laccata, non è in grado di presentare nulla di più.