Proiettato verso la frantumazione dei record dei Marvel-movie precedenti (ma probabilmente non futuri), Avengers: Age Of Ultron è quel genere di prodotto che trascende ogni possibile valore d’indicazione critica per il suo target di riferimento (che nemmeno contempla il lemma “critica” nel suo forse limitato dizionario) e per cui ogni tentativo di analisi è inutile ancor prima che vano. Laddove prodotti solo in apparenza consimili si prestano quant’altri mai a speculazioni intellettuali e plongées verticali nella pirotecnia analitica più autoreferenziale e verticale (come, poniamo, la tetralogia teorica dei Transformers di Michael Bay; o un mostro di precipitazioni pop come Spongebob: Fuori dall’acqua, che nella sua furibonda fame di sinestesia proprio agli Avengers di Whedon strizza più volte l’occhio), il sequel del progetto che ha riunito e armonizzato in un unicum industriale dieci e più anni di adattamenti supereroici per il grande schermo è invece un punto di non ritorno: la vera pietra angolare del processo di esautorazione dell’emissione di giudizio di valore nel blockbuster 2.0. Whedon (e la Disney, e la Marvel) sa bene che il destinatario di questa forma definitiva di nuovo testo, sia esso fruito in solitudine o condiviso in sale di megaplex strapiene, è già influenzato di suo da letture precedenti (siano esse i fumetti -comunque molto diversi- o i film già visti -pur’essi non del tutto armonici nell’insieme ma apparentemente più omogenei-) e che la forma mentis con cui si il soggetto si riferisce al nuovo elemento dell’insieme fa riferimento a metodi non solo già invalsi ma anche automaticamente e individualmente già verificati.
Se ogni spettatore, lo si voglia o meno, è oggi più che mai un (auto)critico, la critica (o il dibattito attorno a essa, o la sua funzione meramente orientativa non tanto del gusto quanto della sola scelta di fruizione) deve smetterla di pensarsi anche solo in minima misura necessaria. Vecchie questioni, del resto: se non esiste più (è mai esistito?) un qualsivoglia parametro oggettivo su cui articolare un pensiero “critico”, soprattutto nell’era digitale dei tweet, dei social, dei blog e finanche di what’sapp, e quindi della moltiplicazione esponenziale dei punti di vista e conseguentemente dei giudizi, come può l’idea stessa della necessità di un’argomentazione esterna sopravvivere a un sistema di segni e strategie surrettizie costruito per azzerare anche la più minima delle variazioni di percezione a essa conseguenti? Avengers: Age of Ultron risponde a questa domanda a partire dalla struttura narrativa stessa del film (di solito il primo gradino da affrontare nella “vecchia” prassi analitica), che viene scientemente disintegrata proprio nella misura in cui lascia credere ai convertiti di rispondere alle logiche più ferree della continuity e della progettualità. Il risultato lascia percepire allo spettatore occasionale (posto che esista) la presenza di una sorta di (per lui comunque impenetrabile e in qualche modo frustrante) noumeno nella filigrana del caos; e a quello accolito (comunque meglio disposto a lasciarsi travolgere dall’assalto sensoriale che a confutare eventuali manchevolezze nel consolidamento interno degli eventi dell’universo di riferimento) solo l’arrembante e stordente autocondivisione e immersione (dopante) nella certezza del fenomeno. Il resto non conta. Qualunque essere senziente con poco più della licenza elementare come bagaglio culturale non accetterebbe mai, in altro contesto, la base del patto di verosimiglianza su cui si basa il soggetto del film (Tony Stark/Iron Man, uno degli uomini più geniali del pianeta, affida la protezione della Terra a una macchina ultrasenziente di sua creazione e la dota di libero arbitrio: la Storia dell’Uomo non ti ha insegnato nulla? Non hai mai letto un romanzo di fantascienza in metropolitana? Non ti rendi conto che stai facendo una SESQUIPEDALE CAZZATA?): ma la premessa che in ogni altra fanbase di franchise cinematografica contemporanea (per non dire dell’ambito a prima vista più vicino ma paradossalmente più lontano: ovvero gli stessi lettori dei fumetti Marvel, abituati a cavillare sulla plausibilità intrinseca delle ripercussioni di ogni più microscopico dettaglio) scatenerebbe legioni di haters e di teorici letterari che neanche Gayatri Chakravorty Spivak, qui funziona come una forma perversa e automatica e rovesciata di sospensione d’incredulità.
In sintesi: un tempo contesto e razionalità realistici ammortizzavano l’irruzione dell’impossibile, qui l’impossibile è norma e di conseguenza va implicitamente accettata come fantastica e plausibile solo la manifesta assurdità di un pensiero stupido come motore di racconto. Quindi è normale che Bruce Banner si trasformi in Hulk aumentando di quattordici taglie senza rimanere nudo come un verme (e fermiamoci qui per non speculare sulla sua compatibilità anatomica con la neofidanzata Scarlett Johansson/Vedova Nera), che Steve Rogers/Captain America abbia circa cento anni o che la mancanza di senso del ridicolo faccia vagare un dio norreno sulla Terra vestito come un cosplayer di Sailor Moon, mentre che la mente più avanzata del pianeta si macchi di un errore che neanche l’ultimo degli imbecilli commetterebbe fa parte del gioco. Così come ogni considerazione (non di poco conto) sulla natura stessa dello spettacolo a cui si sta assistendo. Pur ammettendo che l’interrogativo a seguire non può essere formulato solo in relazione al film di Whedon ma alla quasi totalità della produzione per il grande pubblico (?) dell’ultimo decennio (e quindi, inevitabile, a mero livello di superficie, dai Transformers a Tron Legacy dalla trilogia di Lo Hobbit a Edge of Tomorrow, ma anche meno visibilmente da Rush a Fast & Furious 7), in che misura Avengers: Age of Ultron è ancora, per esempio, un film live-action e non una nuova e più sofisticata e mascherata forma di cartoon digitale che sta al nostro presente quanto cinquant’anni fa l’interazione di umani e cartoon di Mary Poppins stava allo state of the art dell’epoca? Sono sufficienti i veri primi piani di Robert Downey jr. all’interno dell’armatura Hulkbuster per riportare al grado di cinema-dal-vero-con-effetti-speciali la lunghissima sequenza di battaglia metropolitana tra Iron Man e il mostro dalla pelle verde quando è evidente che gli scenari urbani e la loro devastazione sono realizzati al computer così come i corpi (e nel caso di Hulk anche i tratti somatici) dei due antagonisti? D’accordo. Fa parte del gioco. Così come il fatto che in un film dove un personaggio (l’unico riuscito, forse) si chiami Visione, in realtà non sia prevista e non esista alcuna vera epifania della visione, nessuna sua sorpresa. Non è un gioco innocente, tuttavia. Perché nella sua pervasività, nell’esasperazione mai così evidente della riduzione del mero oggetto-film a ingranaggio di una ben più complessa e implacabile macchina di marketing [si obietterà che è sempre stato così, che in questi casi l’industria ha sempre avuto la meglio sulla creazione “artistica”, ma non è vero: l’elenco degli autori che sono riusciti a mantenere un’identità, un’estetica e perfino un’ideologia dentro i blockbuster per cui sono stati cooptati è lungo una pagina. E comunque, tanto per rimanere nel contemporaneo, la differenza tra un Joss Whedon e J.J. Abrams è palese e lo sarà ancora di più -ne siamo certi- quando potremo vedere il settimo episodio della saga di Star Wars], una roba come Avengers: Age of Ultron va per paradosso a collocarsi non tanto nel futuro del cinema quanto nel suo (più buio) passato: quello in cui i defunti (o no?) regimi (brutta parola) miravano a piegarlo a scopi biecamente propagandistici.
La natura stessa dell’oggetto, la sua strategia d’imposizione lo suggeriscono. Così come il tema corollario che emerge –inconsapevole?- dal film. La macchina-Ultron, il cattivo, sembra infatti una minaccia autoritaria: ma non sarà a suo modo un neo-techrivoluzionario ? Un potenziale “nuovo buono” (seppur costretto alla violenza) che immagina un utopistico futuro privo di paladini arroganti dell’ordine (non a caso, Tony Stark nella Guerra Civile dei fumetti -presto anche al cinema- assumeva volentieri su di sé l’onere del pensare conservatore. Iron Man è di destra, e il patriota Captain America -ma guarda te- di sinistra) e dell’idea vigente di giustizia? Gli Avengers cinematografici, in fondo (e in barba pure alla filosofia umanista e liberal di Stan Lee) non sono altro che gli USA reazionari di sempre. E una certa Hollywood, si sa, è l’epitome stessa di questi USA: fiancheggiatrice e sponsor di una produzione di consenso (e dottrina) di massa molto più efficace se applicata a concetti e sistemi all’apprenza inoffensivi come i comics e il loro potenziale affabulatorio sulle giovani menti da forgiare. E se si pensa che sarà la nuova Cina della globalizzazione il paese del mondo a dare il maggior contributo assoluto in termini d’incasso, alla fine viene anche un brivido in grado di spalancare altre voragini ideologiche che forse in questa sede non è il caso di suggerire.