Un bosco visto dall’alto, un bambino che cammina tra gli alberi, un concerto all’interno di una chiesa. Inizia in modo enigmatico il nuovo film di Sharunas Bartas, dopo cinque anni di assenza, durante i quali – spiega il regista – i fatti della vita e i problemi produttivi lo hanno tenuto lontano dal set. Via via che si procede, però, gli interrogativi si dissolvono e Peace to Us in Our Dream (presentato nella selezione della Quinzaine des réalisateurs) si apre letteralmente all’aria e alla luce, respira di una verità coraggiosa e densa, silenziosa e semplice. Un fine settimana in riva al lago per un uomo, sua figlia, la nuova compagna violinista e una famiglia di pescatori. Una storia esile e scarna, anzi, si potrebbe parlare di una cronaca di qualche giorno d’estate apparentemente normale, in realtà sfiorato continuamente dal dramma. Lo si intuisce dal pianto improvviso della musicista, che interrompe il suo concerto e guarda verso l’alto, senza dire nulla. Lo si percepisce in una forma soffocata, nel video ritrovato dall’uomo, in cui è ritratta la madre di sua figlia, l’attrice Katia Golubeva, che, nella realtà era la madre di sua figlia, appunto. Il primo cortocircuito ci dice di questo film il suo carattere principale. Ci parla della continuità tra vita reale e cinema, dell’impossibile cesura nell’opera di Bartas, che trae sempre da se stesso la sua ispirazione. Una dedica e una partenza. Un film intenso e in gran parte vibrante nella flagranza del reale. La vita filmata nel momento del suo accadere, cercando nei luoghi e nei volti la linea da seguire. In questo modo la macchina da presa diventa sensibile ad ogni sussulto, intimo e privato, ma anche, alla fine, capace di raccontare certe pieghe universali dell’animo umano.
Come sempre lo sguardo si distende su un paesaggio delicato e ampio. Il bosco, i campi, il lago. Alcune case immerse nell’erba, discorsi a due tra i personaggi sfiorano le loro esistenze, accennando ai grandi dolori, allo smarrimento, alle insicurezze di ognuno. Dopo le elegie tristi o disperate dei suoi primi film, dopo la ribellione contro la società, il viaggio ostile e la violenza di Seven Invisible Man e di Indigèn d’Eurasie, il regista lituano torna ad un ardito minimalismo dei sentimenti e realizza un film sull’assenza e sul senso di vuoto che si accumula nel cuore dei suoi personaggi. Come fare quando ogni cosa sembra inutile e il dolore non riesce ad avere una forma? Se lo chiedono sommessamente i protagonisti, si interrogano sulla necessità di condividere i propri pensieri, di lasciarli andare in quei paesaggi dolci e inerti. Ma il controcampo sfugge a questo tono sospeso e riporta lo sguardo su quel cinema del rigore, lineare e netto come lo sparo di un fucile. Alle derive esistenziali dei tre protagonisti, infatti, si è andato intrecciando un nucleo narrativo altrettanto sfrangiato e indefinito, ma meno sfuggente, in quanto punteggiato da gesti precisi, geometrici nei loro effetti. Un ragazzo del posto ruba un fucile ad alcuni cacciatori. Assiste da lontano all’ennesima violenza del padre sulla madre. Scappa, si nasconde e spara. Imprevedibile epilogo di un racconto rarefatto. Linee ideali che si incrociano e proseguono oltre il film, in una storia ancora tutta da raccontare, ma che ha rotto l’incantesimo triste per trasformarlo in tragedia.