Esempio di cinema-verità che indaga la meccanica dell’incontro, Honeyland è un film interessato a mettere in scena il mondo secondo la logica del contrasto prima ancora che dell’incastro: cosa succede quando due realtà s’imbattono l’una nell’altra? Cosa permette a due alterità di guardarsi l’una nell’altra, riconoscendosi? Soprattutto, quali sono le condizioni che consentono l’atto della comprensione, unico scenario fertile affinché si realizzi una vera fusione di orizzonti? Natura e cultura, disordine e ordine, luce e buio, rumore e silenzio dialogano apertamente nel progetto realizzato in tre anni dalla coppia di registi macedoni Tamara Kotevska e Ljubomir Stefanov. Coadiuvati dal montatore Atanas Georgiev, il loro lavoro è teso a esplorare un mondo in via di estinzione attraverso modi dimenticati, immergendosi in sapori e odori lontani, attrazioni e repulsioni che esplodono in una potente sinfonia di colori e meraviglia.
Honeyland racconta la storia di Hatidze, una donna che vive sola con la vecchia madre, senz’acqua né elettricità in un villaggio sperduto e quasi del tutto abbandonato nel cuore della Macedonia rurale. Hatidze, maglietta gialla, sguardo profondo e sorriso solare, porta i segni della fatica impressi sul volto, vive l’amore per le cose pure: è una cacciatrice di api a cui dedica la vita arrampicandosi sui tortuosi percorsi collinari che circondano la propria casa per estrarre un nido dalle fessure di roccia, oppure risalendo un fiume vicino al quale un albero nasconde il nettare prezioso. Cercare le api e comunicare con loro, per entrare in relazione con loro e stringere un patto di intesa. La vita di Hatidze scorre in armonia con i tempi e i modi della natura e delle sue api, è in ordine, si nutre delle regole del buon senso, emana pace, fluisce nella giustizia.
Convinta che il miele sia un dono di cui non si deve approfittare, a ogni raccolto è disposta a lasciarne metà alle sue amiche api. Ogni raccolto ha il suo rito e le parole della canzone che intona suonano come un mito: è lei la regina delle api o, forse, una semplice e fedele serva che onora qualcosa di autentico. Vive così, felice, con la calma di chi assapora il gusto dell’esistenza anche se travagliata. I suoi spostamenti al mercato di Skopje, dove vende i barattoli di miele delle sue api, dove acquista frutta (soprattutto le banane) e anche la tintura per i capelli, sono viaggi in un’altra dimensione che le consentono il minimo per sopravvivere, una società che non giudica ma tiene a distanza. Hatidze è l’incarnazione di una tradizione che “è custodia del fuoco, non adorazione della cenere” perché è l’ultima rimasta del villaggio, ormai caduto in rovina come i ruderi che la circondano ma lei resiste, è profondamente libera e va avanti, non si riduce. L’equilibrio però crolla e le cose cambiano drasticamente quando nel villaggio s’insedia una famiglia nomade guidata dal padre-padrone Hussein. Hatidze e il fragile equilibrio della sua micro-comunità si trovano di fronte una dura prova in cui soltanto il tempo sarà da garante, nonostante disponibilità e accoglienza da parte della donna. Questo racconto del quotidiano, composto da momenti bucolici e pezzi di intimità, dove non si nasconde il livido di un colpo o il gonfiore di una puntura, dove non mancano la nascita e la morte, traduce con tenerezza il ritratto epico di una donna dolce, forte, generosa, attenta e capace di non piegarsi alle banali logiche del guadagno. Mentre Hatidze si rivela figura simbolica di un modo di intendere la comunità, fondata sull’apertura, l’ospitalità e il rispetto, Honeyland, da concreto e materico, si trasforma in un film di “soffi vitali” capaci di coniugare la terra in un luogo creativo di opportunità per l’incontro con l’altro, possibile soltanto se si guarda nella stessa direzione.