Mai fermi, mai stabili: Bird di Andrea Arnold

Uccelli in volo. Osservati. Filmati con il cellulare. “Catturati” nello schermo di quest’ultimo, superficie visiva ridotta che trova posto all’interno dell’ampia superficie visiva dell’inquadratura. Inquadratura dentro un’inquadratura. Li filma e li “trattiene” (come farà in seguito in tante altre e differenti situazioni che la vedono al tempo stesso testimone e in azione) la dodicenne Bailey nelle prime, stupende e flagranti, immagini di Bird di Andrea Arnold che, con un anno di ritardo, ha trovato uscita nelle sale italiane dopo l’anteprima al festival di Cannes del 2024. Uccelli in volo. Vedendo l’incipit di Bird la memoria non può non andare a Il volo dell’uccello morto (Let mrtve ptice) realizzato nel 1973 da Zivojin Pavlovic e uno dei più grandi capolavori del cinema jugoslavo (purtroppo ovunque introvabile). Un film che inizia anch’esso con uccelli in volo osservati da persone in un campo che alzano gli occhi al cielo per vederli e “seguirli”. Fino a che una cicogna termina il suo volo infilandosi in un’auto scoperta che sta passando in quella strada di campagna. “Catturata” anche lei in uno spazio altro, “trattenuta” con modalità diversa da una superficie-schermo.

 

 
Non sappiamo se Arnold – una delle cineaste britanniche ma non solo più potenti del nuovo millennio fin dai suoi corti e dal suo lungometraggio d’esordio Red Road che la pose come figura centrale di un nuovo cinema, nome sul quale scommettere rimanendo sempre appagati – abbia mai visto il film di Pavlovic. Ma i film si parlano nella loro Immagi-Nazione (Brakhage è sempre vivo, lotta insieme a noi e ci indica le strade delle mutazioni filmiche) creando analogie inattese piene di stupore e ponti che uniscono periodi e geografie lontane con una naturalezza da brividi. Arnold si ri-tuffa in quegli ambienti sottoproletari inglesi che conosce così bene e che aveva “trasposto” magicamente negli Stati Uniti in American Honey. Ambienti periferici, squallidi, fatiscenti, abitati da comunità marginalizzate (immenso è lo sguardo sociale della regista, e ben più vibrante di tanti colleghi del Regno Unito che lavorano su questi argomenti) colte in uno stato di sopravvivenza, uomini e donne sotto un livello di precarietà e in continua agitazione, mai fermi, mai stabili, sempre eccitati da qualcosa che li coinvolge, emozioni non elaborate, scatti d’ira e di piacere determinati da una moltitudine di circostanze che esplodono impreviste (si pensi al matrimonio del padre di Bailey il sabato della settimana in cui è temporalmente racchiuso Bird e che non aveva detto a nessuno) o purtroppo ben radicate (si pensi qui alle violenze domestiche diffuse, come quelle subite dalla madre di Bailey da parte del nuovo compagno che abusa di lei e delle figlie piccole, le sorelle della protagonista, che ha anche un fratellino). I set sono case degradate, occupate, stanze che “registrano” quel vortice di sentimenti sopra le righe che contiene comunque momenti di tenerezza, dolcezza, complicità espressi attraverso una sincerità istintiva, grezza.

 

 
Bailey è lì, in mezzo, compie gesti radicali (come tagliarsi i bellissimi capelli folti e crespi), si aggira, interagisce con le sue famiglie allargate e giovani (i genitori di Bailey, separati, il padre bianco Bug  interpretato da Barry Keoghan e la madre nera Peyton, potrebbero essere per età un fratello e una sorella maggiore di lei) e chi le frequenta (il fratellastro di Bailey, Hunter; i suoi amici che formano una gang di giustizieri compiendo azioni punitive verso persone che si sono macchiate di crimini; la futura moglie di Bug, Kayleigh; e tanti altri che entrano e escono da quegli appartamenti). Edifici pitturati di scritte e graffiti che Bailey filma insieme a squarci di luoghi, a partire dai ponti che percorre. Il suo cellulare è un occhio “aggiunto” a quello di Arnold e le immagini che ha registrato le proietta su muri o altre superfici della sua stanza, “trasferendole” dal suo dispositivo che assume la funzione di videoproiettore (un lavoro simile, con tutte le differenze possibili ma lo stesso senso di metacinema, lo mette in atto il protagonista del nuovo bellissimo film, in questo caso documentario, del canadese Denis Côté Paul). È un film all’ultimo respiro, Bird, fra corse a perdifiato in monopattino o collisioni, sensuali o violente, fra i corpi che si succedono nelle inquadrature.

 

 
E poi, in questa ambientazione perfettamente definita e indagata, si palesa – dal nulla, in mezzo a un campo, lo sguardo perso e sognante e i movimenti danzanti e fanciulleschi da alieno caduto sulla Terra – un uomo che si avvicina a Bailey e le dice di chiamarsi Bird (interpretato da un sempre cangiante Franz Rogowski). È finito da quelle parti in cerca di notizie sulla famiglia che lo abbandonò e che Bailey cercherà di aiutare a ritrovare, ma è uno spirito libero, un uccello (e lo sarà anche letteralmente), un corpo che si staglia sul tetto di un palazzo (un “angelo sopra” quei suburbi), che interverrà difendendo Bailey e la madre, che infine sparirà dopo un abbraccio con la ragazza e gli occhi lucidi di entrambi. Una “creatura”, esistente forse solo nell’immaginazione di Bailey e che la aiuta a andare avanti in un vivere quotidiano dove devi cavartela, infine, sempre da solo. Le trasfonde speranza e desiderio di resistere. E nell’inquadratura finale, Bailey (l’esordiente Nikiya Adams, immensa, che recita con ogni poro del suo corpo) sorride guardando il padre felice alla festa di matrimonio. Bird è festa per gli occhi resa nello stile avvolgente di Andrea Arnold (che in alcuni momenti “riavvolge” il film riproponendo attimi visualizzando in tal modo pensieri-ricordi di Bailey), con camera a mano ovunque pertinente, così come è perfetta e teorica l’inter-azione tra macchina da presa e cellulare. Un film collettivo. Sui titoli di coda si legge, dopo i nomi degli interpreti principali, la scritta “A film made by” seguita da un lungo elenco in ordine non alfabetico in cui figura, mischiato agli altri, anche quello della regista. E per rafforzare questa collettività, questa idea che si è fatta materia concreta, Arnold ha girato il videoclip Fontaines D.C.: Bug che, in quattro minuti, contiene frammenti di Bird sulla canzone Bug (che è, come si è visto, il nome del padre di Bailey) del gruppo musicale post-punk irlandese Fontaines D.C. e espande il film in un altro territorio, e viceversa, a conferma di una delle caratteristiche portanti dell’opera arnoldiana: farsi corpo espanso, slabbrato, ibrido che non smette di interrogarsi.