“That’s home. Do what you’re told. Don’t get too close to anyone”. Casa. Obbedienza. Prudenza. Sono queste le prime parole che il sergente Don ‘Wardaddy’ Collier (Brad Pitt: voce arrochita, corpo squadrato, atteggiamento minaccioso) dice al giovane soldato Ellison, appena arrivato sul campo di battaglia e assegnato a un carro armato dove non è mai salito né vorrebbe mai salire. Sono parole che esprimono, sotto forma di ordine, un senso di protezione, gerarchia, paura. La casa è nella pancia di un ammasso di ferraglia; la salvezza è nella fiducia cieca verso la catena del comando; la sopravvivenza è nel non esporsi al pericolo, nel colpire prima di essere colpiti (“You or him. Pick”). Siamo in Germania, nell’aprile del 1945. I tedeschi sono in rotta ma la resa è ancora lontana. Bisogna conquistare quella terra pezzo per pezzo e i vecchi carri statunitensi sono più veloci ma meno resistenti e meno pericolosi dei micidiali panzer della Wehrmacht: gli americani sono un esercito che sta vincendo la guerra ma che ha la sensazione di pericolo – gli occhi febbrili e invasati – di chi ha il terrore di perderla, di chi vive sul bilico della storia. Al gruppo di Collier – cinque soldati, cinque tipologie umane prima ancora che militari – viene affidato il compito di guidare una colonna di carri verso la conquista di un villaggio.
Fury di David Ayer imbocca da lì una linea retta verso la sua tragica, inevitabile conclusione. Il gruppo di Collier affronta numerosi scontri a fuoco e il film trova la sua cadenza nell’alternanza di attese, conflitti e nuove attese. I cinque protagonisti sono tratteggiati dalle loro peculiarità razziali, religiose, comportamentali: un’enciclopedia di caratteri che rappresenta, in maniera schematica quanto efficace, la diversità dei soldati americani riuniti sotto una stessa bandiera e sotto uno stesso destino. Il messicano loquace, il religioso pacato, l’attaccabrighe manesco, l’ingenua recluta e infine il capo, padre padrone a cui affidare le poche speranze di sopravvivenza. Le dinamiche collettive sono quelle che hanno segnato il cinema di guerra classico: un’aggressività – una furia – a stento compressa, una solidarietà che emerge nei momenti difficili, un fatalismo nei confronti di un meccanismo incontrollabile e incontrollato, quello bellico, in cui le pedine non possono fare altro che comportarsi da uomini, se non proprio da eroi. Una banda che, in qualche modo, è sorella delle sporche dozzine e dei mucchi selvaggi che non hanno niente da perdere, che combattono per forza d’inerzia, che masticano l’odore della morte senza più avere la forza di sputarlo. Perché i protagonisti di Fury, capaci anche di odio e bassezze come sarebbe ogni uomo chiuso in una scatola ad affrontare il proprio destino, sembrano comportarsi da eroi per mancanza di alternative.
Il senso dell’eroismo di Ayer, anche sceneggiatore, è infatti amaro, lontano da forme di patriottismo enfatico che affiorano come la punta di un iceberg per poi essere puntualmente messe in scacco. La retorica del film, congenita al genere, è continuamente contraddetta dai fatti: ogni atto di coraggio si paga con la morte, ogni gesto eclatante ha un rimbalzo funereo. I soldati di Fury sono carne da macello consapevole del proprio destino, uomini disperati che osservano la vita tramontare sul loro orizzonte, disposti a morire perché privati di qualsiasi scelta, più o meno eroica. Fury si muove con i cingoli del carro armato, una body bag di metallo costretta a seguire la linea di fuoco. Il film è dominato da toni marroni e grigi, intervallati dal rosso degli spari e del sangue e dal bianco delle bombe, che esplodono costruendo una litania di scene madri – perché è così che il canone vuole – che accompagna i personaggi verso la fine. Una marcia funebre che si concede l’unico respiro in una sequenza “altra” e simbolica, incastonata perfettamente nel centro del film. Dopo aver conquistato il villaggio – abitato da vecchi, donne, bambini tristemente abbandonati a marcare il territorio – Collier ed Ellison entrano in una casa, trovano due donne e si lasciano andare alla messa in scena di un’esistenza differente: una sigaretta, una cena, una bottiglia, l’ipotesi di un contatto amoroso. Un teatro dove ricostruire un’altra casa, un’altra vita, un’altra famiglia, un’altra patria. Diversa da quella lontana, ridotta a un’idea macchiata di sangue e di fango, ormai irraggiungibile anche solo con il pensiero. Prima dell’arrivo degli altri compagni, ubriachi e molesti ma altrettanto affascinati da quella bolla immaginaria a cui vogliono partecipare (e prima dell’ordine che li ricaccia nel buio del carro armato), Collier e Ellison costruiscono in sé una reazione all’orrore, sognano una normalità divenuta impossibile. Tornano ad essere, anche se solo per un momento, uomini e non dannati.