È una forza della natura Ultimina, protagonista dell’omonimo documentario di Jacopo Quadri presentato al 32 Trieste Film Festival nella sezione Premio Corso Salani. Un fiume in piena, inarrestabile nel raccontarsi davanti alla videocamera, capace di colmare qualsiasi buco venga a crearsi da grande affabulatrice qual è, con un senso strepitoso e innato per lo storytelling. Nata nel 1932 in una famiglia povera di mezzadri toscani, la donna deve il suo nome al fatto che doveva essere l’ultima di tanti figli (ma fu seguita dalla sorella Finis). Con lei passiamo varie giornate, scandite da rituali sempre uguali ma sempre diversi perché illuminati dalla sua presenza: la lunga camminata per arrivare al camposanto dove è sepolto il marito Goito – ma anche la cognata e i suoceri – e dove entrando saluta tutti («Buongiorno. Ciao a tutti»), il lavoro nell’orto con la zappa, le passeggiate nei campi con in testa l’immancabile cappellino, i lavori domestici, le telefonate… Seduta al tavolo apre l’album delle fotografie della sua famiglia e così facendo rivive il passato a partire dai momenti meno belli. Non ha avuto una vita facile Ultimina, che fin da bambina ha badato alle pecore, insieme con i fratelli, da mattina a sera mentre i genitori rimanevano a casa. Ha fatto due anni di scuola e poi si è ingegnata per gestire il negozio a Sovana fino all’arrivo del registratore di cassa. Non serba rancore a nessuno perché all’epoca «non c’era né pietà né misericordia, era per tutti così», le dimostrazioni di affetto da parte dei genitori non esistevano («che mi abbiano dato un bacino non mi ricordo»). Appena è stato possibile, il padre si è liberato di lei dandola in sposa, a 17 anni, poi il marito si è messo a bere («quella è stata soda»), ha accudito il suocero malato… Ultimina ha lavorato duramente tutta la vita: «Il Signore mi ha dato la salute, ma se ero una persona ero morta. Io ero una bestia, non sentivo caldo e freddo, non mi stancavo mai». Ma, constata, «ora è diverso».
Un racconto in cui emerge anche la modernità di Ultimina che pensa alle donne che l’hanno preceduta (la mamma, la nonna) che «son state sacrificate, non potevano dire niente, non potevano parlare. Io le aiuterei». Donne totalmente in balia del marito («mia mamma era telecomandata») che decideva per tutti: così è stato per suo padre (che si limitava a tirare le orecchie ai figli), ma soprattutto per il suocero «birbante» che «i figli li ha tenuti male» e nessun riguardo ha avuto per la moglie: «È stato uno schifoso, gli portava le donne in casa» e all’occorrenza la picchiava. Bellissima la sequenza che, in un cortocircuito temporale, sembra dare vita a un flashback sulla vita da giovane di Ultimina: in una luce calda, completamente diversa dalla scena precedente, si vede una donna di spalle con un abito arancio a fiori che si dirige verso il gregge per farlo uscire dal recinto. La scena è accompagnata da musica extradiegetica e dai belati delle pecore a cui si sovrappongono gli incitamenti della donna. Solo per un attimo la vediamo in volto (probabilmente è la figlia di Ultimina) dopodiché si passa a inquadrature ravvicinate di fiori, piante e insetti prima di tornare sull’inquadratura notturna della casa su cui si chiude questo inserto onirico. E di grande impatto è la domanda finale, rivolta al regista, ma che sembra chiamare in causa lo spettatore: «Perché non siedi?». Stare ad ascoltare Ultimina, prendendo il giusto tempo per farlo, è un regalo che ci si deve fare.
La 32ª edizione del Trieste Film Festival è visibile sulla piattaforma MYmovies