Il cinema spagnolo più mainstream sta diventando (o vorrebbe diventare) sempre più internazionale. Netflix se n’è accorta ed ecco che da qualche anno a questa parte lascia spazio ai titoli più inclini a percorrere questa strada. Quello che più è interessante notare nei casi de La casa di carta, Il buco o il più recente Sotto lo zero, non è tanto la loro struttura smaccatamente statunitense (thrilleroni inizialmente intimisti e poi via via sempre più esplosivi) o il potenziale di un’idea tanto semplice quanto efficace in partenza, che però poco alla volta cede al fascino della spettacolarizzazione. Ciò che accomuna questi tre lavori è l’idea di addentrarsi dentro il marcio, sotto il tappeto, là dove è nascosta la polvere. La casa di carta racconta di una rapina in banca. Per la maggior parte dello show, siamo claustrofobicamente chiusi dentro quell’edificio che poco alla volta farà saltare i nervi ai personaggi che lo abitano. Il buco è una discesa negli inferi, in tutti i sensi. Si scende sempre più verso il baratro, negli angoli più bui e reconditi dell’indole umana. Sotto lo zero, a cominciare dal titolo, prova a sua volta a scavare. Il film prende piede in un carcere dove una coppia di poliziotti (il classico sbirro buono e sbirro cattivo) sono responsabili di un trasferimento di prigionieri. Durante il tragitto all’interno di un blindato di massima sicurezza, subiranno un attacco. Qualcuno dall’esterno cerca di fare irruzione ed è disposto a tutto pur di ottenere il suo scopo.
Le vicende, per una serie di improbabili più che sfortunati eventi (ma fa nulla, non fossilizziamoci troppo sulla veridicità del racconto, non è a questo che il cinema action deve badare), finiranno per condurre le nostre bestie da allevamento (interessantissimo come Quílez insista per tutta la prima parte su questa analogia) in un lago ghiacciato, a fare i conti con temperature siderali. Il freddo anestetizza, isola, rende più deboli e per questo immuni. Il freddo ti porta a perdere il controllo, la lucidità. Ti costringe a sopravvivere e, di conseguenza, a pensare unicamente a te stesso. Sotto lo zero parla di questo. Si diverte a massacrare (letteralmente) i suoi personaggi spingendoli via via sotto la soglia della ragione. Con fare tesissimo e ritmato, il film esplode solamente quando viene meno l’umanità, il senno, l’empatia. Da uno stato di ragione (il furgoncino blindato) si passa a uno stato di natura (la sequenza nella città fantasma finale). L’uomo regredisce e si palesa per quello che è: una fiera. Senza freni, senza gabbie, senza regole, senza cuore, insomma sotto il grado minimo (lo zero) della ragione, si palesa la rapacità. Quílez è bravo a impostare il discorso, a seminare zizzania. Purtroppo risulta molto meno lucido a raccoglierne i frutti. Il suo film soffre tanto quanto i suoi personaggi: varcata la soglia dello zero, perde il polso e lo smalto. Esonda, come è giusto che sia per rimarcare l’umore della situazione, ma lo fa nella maniera più semplicistica e retorica del termine. Proprio come gli altri titoli precedentemente citati che, chi più chi meno, si inabissano troppo all’interno del torbido da non riuscire più a vedere la luce.