Nel 2016 la regista francese Alice Diop girò un film dal titolo La permanence, un lungo scorrere di immagini in un ambulatorio medico dove passava un’umanità disagiata e malata e quell’ambulatorio diventava sineddoche visivo-politica di un mondo molto più grande, molto più doloroso. Era un cinema dettagliato quello della Diop, un cinema che sapeva restituire i temi del confronto e della flebile speranza oltre che la fragilità, caratteristica connaturata a quelle vite complicate. D’Anolfi e Parenti con Un documento – titolo quanto mai burocratico e ufficiale per un film che persegue l’intento per l’appunto di documentare una terapia e quindi in questo senso ontologicamente corretto – ripercorrono quella strada e non si è a conoscenza se i due registi e autori abbiano o meno visto il film della regista francese, fatto sta che, salvo una differente impostazione registica, i due documenti possiedono non solo lo stesso intento, ma si guardano con la stessa intensità umana. È quindi anche questa caratteristica a consentire una immediata associazione tra i due titoli, accomunandoli in quella categoria di cinema del dettaglio che sembra costituire il fondamento dell’operazione, vero e proprio intervento sul vivo della ferita, sulla sutura delle lesioni della vita e, non ultimo, intervento politico su una realtà minima, personale, ma amplificabile in successione geometrica.
L’esperimento cinematografico al quale assistiamo, in cartellone al Filmmakers di Milano, è spiegato nell’incipit e ci riporta al 2000 con l’apertura, presso il nosocomio del Niguarda di Milano nel Dipartimento di salute mentale, di una sezione di Etnopsichiatria. Un tentativo di sperimentare con gli immigrati terapie dell’ascolto attraverso la presenza di psicologi e psichiatri per guarire i traumi patiti durante quei viaggi disperati che diventano cronaca sui nostri mezzi di informazione. Le riprese del film si articolano in tre sedute e al centro la condizione di disagio psicologico di un immigrato sbarcato sulle coste di Lampedusa dopo mille peripezie e una solitudine che sembra inguaribile. Non vediamo mai il suo volto e la sua voce fuori campo si sovrappone a quella della mediatrice linguistica che traduce il suo francese. L’inquadratura, per i cento minuti di durata del film, è fissa sui due sanitari che guidano le sedute di terapia in un colloquio amichevole e disponibile. In quelle sedute si parla del passato e del presente, di violenza e amicizia, famiglia e lavoro, nel tentativo di una maieutica utile alla guarigione dai traumi. È proprio l’impianto del film a segnare quella caratteristica di questo cinema quasi da anatomopatologo, da ricercatore di emozioni in un flusso ininterrotto di immagini che scrutano e si leggono sui volti dei due sanitari.
Di mezzo c’è ovviamente la vicenda del giovane immigrato disponibile al dialogo tutta verbale, tutta quasi inafferrabile tanto le immagini mancanti ci impediscono di guardare le sue espressioni. È qui che questo cinema, come sempre per i due autori, di taglio tra il didattico e l’enciclopedico, l’immaginifico realista e la ricerca dello straordinario in quel radicale realismo (ci sarebbe da citare Godard ancora una volta in quella centrata descrizione del cinema di Lumière e Méliès a proposito di ordinario e straordinario), sanno restituire, alla loro maniera, il senso di un cinema primitivo che assomiglia per evocazione ai graffiti preistorici delle grotte e per derivazione a quella scrutata da Herzog. D’Anolfi e Parenti scandagliano dunque il presente, il loro cinema microscopio (a proposito di Godard) rivela mondi fantastici che abbiamo sotto gli occhi e non sappiamo vedere, apre orizzonti e assonanze, sa offrire emozioni dalla fissità dell’immagine in quella inusitata fascinazione del cinema. Quelle immagini diventano il passepartout per entrare in contatto con quel mondo che diciamo di conoscere, un piccolo mondo che prova a suonare all’unisono a quel rumore di fondo più difficilmente percepibile, ma intenso, come un diapason alla ricerca di una difficile armonia.