Una favola moderna sull’amore familiare, la comunicazione e la sopravvivenza: così le note di produzione rievocano i motivi del successo di A Quiet Place, successo a sorpresa del 2018. Ma c’è anche di più: il film di John Krasinski è stato infatti il risultato più genuino partorito sinora dalla Platinum Dunes nell’ambito della sua produzione horror. Abbandonata la detestabile stagione dei remake patinati dei grandi classici, la casa delle dune sembra qui aver ritrovato un’idea più affine a quella del suo fondatore Michael Bay. Un cinema cioè sensoriale, meno affidato sulla scrittura e più spostato sull’artificio cinematografico puro, capace perciò di arricchire l’esperienza della visione attraverso un uso espressivo del sonoro, inteso sia come sbalzi improvvisi dei rumori, che nell’alternanza efficace con il silenzio (un silenzio totale e anch’esso straordinariamente “pieno”). Se comunque, nell’allegoria della famiglia esposta ai rischi del mondo “di fuori”, Krasinski trovava la giusta carica emotiva per il suo tour-de-force sonoro, va comunque riconosciuto come A Quiet Place si prendesse il giusto tempo per mettere in successione i pezzi del suo mosaico narrativo. È la differenza che subito salta all’occhio con il sequel, in cui la storia riprende esattamente da dove era finita, ma in modo più libero, quasi “rasserenato”, privo delle ansie da prestazione che normalmente ci si aspetterebbero da un proseguimento che deve essere necessariamente più grosso e più esplicativo sui confini dell’universo posto in essere.
Al contrario, la forma raggiunge una notevole scioltezza nella progressione, dimostrando una maturità registica evidente in Krasinski, che alterna bene i passaggi utili ad arricchire la mitologia della saga, con i fatti precipui della vicenda narrata. Ancora una volta siamo di fronte a una storia privata, “piccola”, allargata a un vecchio conoscente con cui la famiglia Abbott si riunisce durante la fuga e che dovrà superare le sue diffidenze per poterli aiutare a sopravvivere, in un’avventura divisa tra più fronti e più territori. C’è quindi un mondo “di sotto”, in un’acciaieria che può essere sia rifugio che prigione e che rievoca gli scenari post-industriali dell’America attraversata dalle crisi dell’era contemporanea – l’impianto è non a caso quello della Bethlehem Steel Corporation, un simbolo dei cambiamenti economici a cavallo del secolo. A questo si contrappone un altro mondo rurale e piccolo, simboleggiato dall’isoletta in cui i mostri sembrano non aver trovato asilo, ma che pure verrà minacciato da vicino da una delle creature.
Partendo dal piccolo, insomma, A Quiet Place II diventa una piccola ricognizione dell’America nelle sue articolazioni più problematiche, una sorta di prospettiva rovesciata su una nazione che si percepisce come vincente e viene ora ritratta alla luce di nuove e più inclusive narrazioni: una famiglia senza padre, con una figlia sordomuta, tra i relitti di una potenza passata, che deve forse ricominciare da nuclei sociali e territoriali più piccoli. Non a caso l’invasione, nel prologo, inizia durante una partita dello sport nazionale per eccellenza, il baseball e si articola subito lungo una di quelle main street di provincia attorno a cui tradizionalmente si compattano le comunità. La comunicazione e la sopravvivenza diventano quindi un tutt’uno con la necessità di ripensare l’ordine delle cose, messo non casualmente in crisi da mostri filiformi ma aggressivi, che a loro volta capovolgono ogni paradigma, non affidandosi né all’olfatto né alla vista (un po’ come il T-Rex di Jurassic Park, cieco ma capace di percepire il movimento, altra straordinaria invenzione puramente cinematografica). Anche per questo, la tensione muscolare del meccanismo action si esalta e si stempera a sua volta nella sfida di trovare un posto tranquillo, come indicato dallo stesso titolo, primo presupposto da cui ricominciare a costruire il mondo.