Presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, arriva nelle sale italiane il nuovo film di Valentyn Vasjanovyč che, proprio come il precedente Atlantis (2019), prende le mosse dalla tragica e tesissima guerra che attanaglia il Donbass dal 2014 e che oggi è tristamente esplosa in un conflitto bellico di più ampia portata. Forte di uno stile ricercato, geometrico e glaciale che prevede una serie di inquadrature a prospettiva centrale per lo più ferme immobili, senza montaggio, mentre al loro interno tra profondità di campo, finestre e comparse tutto si muove e tutto restituisce dinamismo cinematografico, Reflection racconta la spirale di paura e terrore nel quale finisce un dottore che decide di arruolarsi volontario per il fronte. Catturato dalle truppe russe dopo poco, il suo viaggio verso gli inferi della prigionia lo segnerà per sempre e, anche una volta tornato a casa, sarà difficile riprendere confidenza con la vita precedente. Bastano poche sequenze, se non addirittura solamente la bellissima scena di apertura, per comprendere e apprezzare il talento visivo di Vasjanovyč. Si tratta di un regista che ricerca nella forma tutta l’attenzione al dettaglio e la potenza che il cinema può sprigionare. Eppure in Reflection, a lungo andare, lo stile può risultare un po’ fine a se stesso, quasi un esercizio virtuoso. In effetti il film abbonda in maniera eccessiva di simboli e metafore ampiamente strillate allo spettatore, quasi come se il regista avesse paura di non risultare comprensibile al pubblico (a tal proposito si noti l’inquadratura finale girata all’interno del teatro). Tuttavia è anche vero che il cuore pulsante del film è uno soltanto ed è interessante notare come il regista continui a insistere dall’inizio alla fine sulla medesima questione, quasi come se fosse di primaria importanza.
Ci sono moltissime superfici in Reflection. Specchi, finestre o lastre che danno vita, va da sé, al riflesso del titolo. Una superficie sottilissima e trasparente che permette di osservare il mondo da una posizione privilegiata. Che sia il vetro di un’auto durante una proiezione piovosa al drive-in, oppure una parete di plastica per evitare i proiettili di pittura usati dai concorrenti di un match di paintball, il protagonista riesce (quasi) sempre a osservare il dramma all’interno di una bolla sicura. Solamente quando deciderà di provare a valicare quella linea, quella superficie, tutto verrà meno e la violenza sarà messa al centro tanto della sua vita quanto della macchina da presa. Nella parentesi della prigionia, infatti, non ci saranno più confini: tutto è inesorabilmente davanti ai nostri occhi, senza filtro. Vasjanovyč sa bene che lo schermo cinematografico altro non è che l’ennesima superficie di separazione, sa bene che dalle poltrone del nostro cinema godiamo di un privilegio unico nel poter osservare la guerra senza doverci fare minimamente i conti. Per questo il film sfida lo sguardo del pubblico, si rende eccessivamente esplicito (forse anche troppo) e insostenibile. Al di là del vetro, c’è sempre la morte (come dimostra l’uccello che sbadatamente finisce per sbattere contro la finestra). Il cinema è l’ultimo baluardo, l’ultima difesa. Sul grande schermo la morte si palesa, si concretizza. Ma resta comunque sempre distante, incatenata all’interno di un mondo che non potrà mai evadere dalla sua stessa essenza. Reflection è un monito, perché il passo da dentro a fuori la sala è rapido e indolore. Una volta usciti però, non ci sono più schermi o superfici all’interno dei quali trovare rifugio. Soprattutto oggi, quando la guerra iniziata nel 2014 non è mai stata così vicina.