Qualcosa di travolgente. Il cinema di Andrzej Zulawski lo è sempre stato. Di film in film. Non molti, tredici, in oltre quarant’anni di carriera. Tutti, innervati di un’elettricità nervosa e fisica, di una sperimentazione mai doma delle possibilità del corpo e della parola, dei gesti e del linguaggio. Mancava, al cinema, il cinema del regista polacco. Dal 2000, quando realizzò La fidélité, ulteriore capitolo di una filmografia tracciata sull’abisso della vita e della morte. È tornato Zulawski, al cinema, a distanza di quindici anni, giocando una nuova, all’apparenza impossibile, sfida: tradurre in immagini l’ultimo romanzo di Witold Gombrowicz Cosmo, che lo scrittore polacco pubblicò nel 1965. Un labirinto di suoni, voci, rocambolesche espressioni verbali e un tessuto narrativo labirintico, ridondante, onirico, sfrontato nel descrivere le vertigini che possono scaturire dall’incontro di personaggi già posseduti dalle proprie ossessioni, espanse, non trattenibili. Zulawski ha osato, e solo avendo amato profondamente quel testo-faro della letteratura polacca gli ha ridato nuova vita, esplorandolo fra le righe, restituendolo in tutta la sua concentrazione e distrazione fluviale, pur concedendosi qualche variazione (si pensi all’ambientazione ai giorni nostri, anche se il tempo non conta, essendo libro e film immersi in una dimensione atemporale, o al lavoro di Fuchs, qui giovane stilista, e non impiegato, compagno d’avventure del protagonista Witold). Ne è sorto Cosmos (prodotto da Paulo Branco; premiato al festival del film di Locarno per la migliore regia), ovvero la dissolvenza incrociata, fino alla sovrimpressione più limpida, fra la pagina scritta e l’immagine in movimento; la messa in scena di un labirinto di segni in scenografie ristrette dove i toni della rappresentazione e dello spazio teatrale, fino alla farsa, vengono indagati da una macchina da presa infinitamente curiosa e in movimento per creare un corto circuito fra totali e dettagli da penetrare. Come in tutta l’opera di Zulawski.
Cosmos è un film-esperienza che non chiede di essere decifrato in tutti i suoi strati, che, come in un (qualsiasi) lavoro di Raúl Ruiz (con il cui pensiero labirintico, con il cui uso della parola come contenitore mai saturo di detours, il film di Zulawski sembra tessere relazioni leggiadre – non a caso il direttore della fotografia di Cosmos è anche quello de I misteri di Lisbona di Ruiz), accumula segni, intrecci misteriosi, viaggi mentali densi e vissuti tanto quelli realmente compiuti. Un film che costruisce false piste, deliri febbrili per rendere impossibile la risoluzione di un enigma, di una serie di enigmi, fin dall’inizio fatto apparire come puro, nitido pre-testo per immergersi nelle vite narrative di personaggi stra-ordinari, per cercare un orientamento nella moltitudine di combinazioni, nella “ragnatela di connessioni” (Gombrowicz) messe in circolo. Che si vada (che ci vadano per cercare una camera in affitto lo studente di legge e aspirante scrittore Witold e il suo amico stilista Fuchs) – superando il cancello di una casa nella campagna portoghese, confinante con un bosco e un sentiero che, complice, conduce a esso – verso un’esperienza non immaginabile, avventurandosi nell’oscurità della vegetazione e della mente dei personaggi che abitano quella dimora, Zulawski lo dichiara, senza forzature, in una delle prime scene. Fa dire a Witold, all’inizio di una ronde di citazioni letterarie e cinematografiche sparse nel film, di nomi e cognomi della letteratura e del cinema chiamati in causa fra serietà e ironia (fra cui un pertinente riferimento a Teorema di Pier Paolo Pasolini), di trovarsi “per una selva oscura ché la dritta via era smarrita” (curiosamente, ma non troppo visto che i film si parlano, lo stesso incipit di Vito e gli altri con cui esordì alla regia nel 1991 Antonio Capuano, capolavoro che esplorava altri gorghi, in quel caso nel corpo napoletano stratificato). Una volta entrati nella selva non ci saranno più dritte vie, solo la cartografia di un luogo che si auto-alimenta, le pedine di un puzzle non risolvibile che linee invisibili tengono unite ma non spiegano. Non si tratta di trovare un colpevole a situazioni tragiche o grottesche, si tratta di addentrarsi nel mistero e nelle manifestazioni del desiderio, della follia, della paura e dell’importanza d’amare, della repulsione, dell’attrazione e del rifiuto. Tutti con/tro tutti nelle stanze e nel caos della casa-cosmo, e nelle brevi escursioni in montagna (con alcune delle inquadrature più carnali di tutto il film sul volto e il corpo di Lena, proprietaria della casa, vero e proprio concentrato della passione zulawskiana) e al mare prima di fare rientro nel set principale per l’epilogo.
In Cosmos la fisicità del cinema di Zulawski si manifesta attraverso una luminosa trasparenza cromatica che può mutare improvvisamente in materia incandescente che dipinge sia i luoghi sia i volti dei personaggi interpretati da attori in stato di grazia. Soprattutto Jonathan Genêt, nel ruolo di Witold, e Victória Guerra, in quello di Lena. Sono loro due i corpi più aderenti all’immaginario erotico del cineasta polacco. Genêt, viso e corpo androgino, sensuale e inquietante, si aggira vampiresco, sosta immobile o gronda energia, è partecipe e osservatore della danza che si consuma fra le pareti e i dintorni dell’abitazione e che coinvolge i sensi e le parole. Guerra dà a Lena fragilità e nervosismo, reazioni violente e istanti di infantile rilassatezza. Le labbra e la bocca di Witold cercano quelle di Lena, e il labbro deturpato della cameriera. Labbra/bocche cercano altre labbra/bocche, si sfiorano, si baciano, magari separate da labbra di carta. False distanze e estreme vicinanze da quell’organo che è anche porta per il passaggio delle parole. E nell’epilogo formalmente ancora più libero il montaggio suggerisce altre deviazioni di percorso, la presenza di altre porte che si possono celare dentro una stessa immagine e fino a quel momento non percepite. Accadono apparizioni e sparizioni, baci dati oppure no (da Fuchs a Witold, disponendo una nuova pedina nel tassello di relazioni e amori), saluti e separazioni, corpi che diventano fantasmi. Mentre Zulawski in una scena fa entrare in campo il set, il pezzo di un carrello in maniera del tutto naturale (e poi, sui titoli di coda, segmenti della troupe al lavoro), ricordandoci così che nel suo cinema le pareti di un’inquadratura sono in continuo ri-posizionamento nell’instancabile gioco di specchi tra campo e fuori campo.
COSMOS EXCERPT 02 EN from Leopardo Filmes on Vimeo.
COSMOS EXCERPT 03 EN from Leopardo Filmes on Vimeo.
COSMOS EXCERPT 04 EN from Leopardo Filmes on Vimeo.