C’è un momento nel secondo lungometraggio di Ciro D’Emilio pieno di verità e sentimento in cui il protagonista Bernardo comunica al compagno di cella Elia la morte del padre. Nella parte centrale del film, durante l’ora d’aria, nel cortile del carcere in cui sono detenuti. La macchina da presa non è frontale ma collocata in diagonale, sul fianco dei corpi di Guido Caprino e Boris Isakovic, quasi con l’intenzione di catturarne l’imperfezione, a ribadirne la precarietà. È un momento che occupa un’intera sequenza realizzata senza stacchi di montaggio, in continuità, per rispettare il ritmo e la solennità di una confessione, per esaltare l’intimità nonostante la presenza di altri detenuti, di altre persone. C’è chi prega, chi cammina, chi pensa e chi, come Bernardo, consapevole di trovarsi di fronte una persona dura ma solidale, sceglie di spingersi oltre raccontandosi e rivelando a Elia di come suo padre lo accogliesse da bambino dopo le lunghe giornate di lavoro e di come lui fosse impressionato dalle sue grandi mani da contadino e piccolo proprietario terriero. È un momento molto giusto in un film come questo che vede le mani come strumenti per realizzarsi e distruggersi, sia per come racconta gli affetti che sono chiamati in causa – di fatto questa negazione della morte si aggiunge alle ingiustizie subite dal protagonista – sia per come lavora sull’economia simbolica perché, proprio qui, in questo preciso momento, in un film che guarda la figura del padre da una prospettiva anomala, Bernardo non solo riconosce che Elia, in un certo modo, può essere come un padre per lui ma anche si rende conto di non essere più il padre che era, prima di entrare in carcere. Infatti, al termine della confessione, Elia batte la mano due volte sulla gamba di Bernardo emulando simpaticamente il gesto rituale del padre ma rilanciando, senza troppi giri di parole, la volontà di mantenere salda la loro alleanza una volta usciti dal carcere.
Per niente al mondo è composto di questi momenti carichi di sincerità, pezzi di un discorso incastonato in una struttura priva di linearità che mescola tre differenti piani temporali, tesi a proiettare lo spettatore nella complessità di un altro modo di guardare il mondo, ferito, deluso, rabbioso. Se da una parte il merito di D’Emilio è certamente di aver avuto l’intuizione di accendere i riflettori sulle conseguenze a cui il suo protagonista deve far fronte una volta entrato nella voragine dell’ingiustizia e del carcere, dall’altra questo film è interessato a esplorare la fitta trama di punti di vista sulla verità dirottando lo spettatore su più punti di vista, come ha dichiarato lo stesso regista: «Questo movimento, avanti e indietro nel tempo, offre al pubblico la grande opportunità di sospendere il proprio giudizio sul film e sul protagonista, di confrontarsi con i propri pregiudizi e con i luoghi comuni che caratterizzano ognuno di noi. Lo spettatore, infatti, è direttamente proiettato nella vicenda ed è chiamato a giudicare, ma senza avere piena consapevolezza dei fatti. Ogni personaggio del film ha una sua verità. La dichiara, la nasconde, la grida con tutto il suo fiato».
Come accadeva già in Un giorno all’improvviso, dove prevaleva un interesse verso la condizione dell’abbandono vista con gli occhi del giovane protagonista, D’Emilio è interessato a catturare il vuoto vissuto da Bernardo, restituendo allo spettatore la complessità densa e drammatica di chi è schiacciato dall’ingiustizia di essere ritenuto colpevole di un reato non commesso. Così, senza cascare in visioni stereotipate, evitando di farsi schiacciare dall’ombra sociologica e didascalica, il film segue una traiettoria insolita e meno accomodante, evita di dare tutte le risposte, resta in bilico giocando con i generi e lavorando per sottrazione ma, soprattutto, restituisce immagini non convenzionali di un Nord Est rimodellato da uno scenario fotografato in modo glaciale, distaccato, misterioso. Il finale lascia senza fiato di fronte alla crudeltà dello smarrimento.