Maigret di Patrice Leconte e la giusta distanza

L’enorme schiena di Maigret (Gérard Depardieu) occupa quasi tutto lo schermo. Nella sala del Pronto Intervento il commissario si trova di fronte a una pianta di Parigi, piena di lampadine che si accendono per segnalare gli allarmi, che copre un’intera parete. Con al fianco il fedele Lapointe (Bertrand Poncet) Maigret si lascia andare a una riflessione-monologo: “bisogna difendersi: non vuol dire essere insensibili ma mantenere la giusta distanza per tentare di capire. Col tempo ti forgi una corazza e poi, un giorno, mentre lavori a un caso banale vieni colpito, chissà perché, da un dettaglio: il motivo di una carta da parati, un animaletto di peluche, una frase, uno sguardo. E di colpo tutte le certezze crollano. Ritorni a essere un bambino che ha paura del buio”. Questa bellissima e lancinante scena è il manifesto del Maigret di Leconte che è per tutto il film alla ricerca della giusta distanza, dal crimine, dai colpevoli, dalla città, dal totem-Maigret. Il nostro immaginario è forgiato sulla figura grassoccia e livemente bonaria di Gino Cervi che pipa in mano, spiega tanto e agisce poco. Ma Maigret non è un padre di famiglia senza figli (anche se spesso mostra un lato paterno nei rigurdi delle vittime). E non è grasso, è massiccio. In Pietr il Lettone viene descritto:” Era enorme e ossuto. I muscoli poderosi si disegnavano sotto la giacca”. È elegante, ha le mani curate ma “la struttura è plebea”.

 

 

Depardieu lavora magnificamente sulla densità fisica del personaggio, con una sobrietà che sembrava non appartenergli più. Strepitose le sequenze nell’obitorio, con i dialoghi scarnificati, il commissario immobile nel suo cappotto grigio (come il suo umore) che decide di risollevarsi per dare giustizia a  una ventenne. Maigret è il più comune dei piccolo-borghesi, felice di ritrovare sua moglie dopo una giornata di lavoro dove chi incontra non è chi dice di essere (“era bello ritornare alla voce della signora Maigret, all’odore dell’appartamento, con i suoi mobili e i suoi oggetti tutti al loro posto”). Quando è fuori tutto gli appare avvolto di ambiguità e tinto di mistero. Ombre sinistre sono in agguato sullo sfondo. Depardieu spinge molto (troppo?) sul pedale della malinconia, del rimorso. Maigret appare disinicantato, quasi depresso, si fa visitare dal medico ma non è malato: è in lutto, per il figlio perduto, per la vita che passa, per il fatto che dovrebbe smettere di fumare. Il commissario possiede un’incredibile capacità di interpretare i contesti e i costumi sociali e farne le chiavi per risolvere i casi di cui si occupa. Come il suo creatore è un conservatore che non si scandalizza per le gerarchie sociali, ma detesta la presunzione e il disprezzo delle classi dirigenti. Leconte ha già portato sullo schermo Simenon con L’insolito caso di Mr. Hire (1989) dove si è mosso, con risultati lusinghieri, fra ambiguità, tensione e voyeurismo. Qui racconta, sotto una fotografia fortemente espressionista (firmata Yves Angelo, Un cuore in inverno, Germinal), una Parigi nebbiosa, crepuscolare, dalle strade deserte, lucide di pioggia, i lampioni circondati da “un’aureola di goccioline”, i rari passanti che camminano rasenti i muri. Probabilmente ha tenuto presente che quando a Simenon chiedevano di definire il suo stile, sornione, rispondeva: “Piove”. Rimane un mistero perché Patrice Leconte e Jérôme Tonnerre hanno optato per una sceneggiatura che cambia completamente la trama del romanzo (Maigret e la giovane morta, 1954). Il film ne è tratto in modo assai libero, i personaggi mutano quasi tutti. L’assassino sulla pagina è un altro, come la motivazione del crimine; la ragazza vero doppio della vittima, che Maigret tenta di salvare dalla città, è solo sullo schermo…