«Qui siamo stati bene, abbiamo fatto cose belle.»
L’aula come luogo di incontro e integrazione, crocevia di sguardi pronti a brillare, di corpi in attesa di definizione, di lacrime e sorrisi che s’intrecciano, di parole che scalfiscono la memoria e fanno diventare. L’aula come microcosmo, immagine rappresentativa di quel ponte culturale che è la scuola, elemento di congiunzione tra la famiglia e ciò che il mondo riserva a ciascuno. Mira a restituire questo sentimento il lavoro di Maria Speth. Il suo Mr. Bachmann e la sua classe offre allo spettatore la possibilità di entrare in un’aula della Georg-Büchner-Gesamtschule, scuola media statale di Stadtallendorf, e seguire l’anno scolastico di una classe multietnica accompagnati dalle lezioni di Dieter Bachmann, anticonformista e ribelle docente dell’istituto, ex musicista, ex scultore. Piccola località al centro del land dell’Assia, collocata tra il nulla e l’addio, ancora oggi Stadtallendorf è città di operai (qui la Ferrero aprì il suo primo stabilimento estero) e come spesso accade in questi contesti molto attraenti dal punto di vista lavorativo, la località è diventata groviglio di etnie e nazionalità senza un valido supporto sociale e culturale: Turchia, ovviamente, ma pure Azerbaijan, Bulgaria, Russia, Italia.
Così, la scuola, Mr. Bachmann in particolare, accoglie, scava nel profondo per tessere relazioni di senso, crede in un intervento umanizzante e in una società diversa e più consapevole, si pone al centro di un dialogo di crescita onesto e serio in cui necessariamente occorre prendere le misure con le differenze che si manifestano davanti agli occhi, l’incontro con gli altri, e le proprie trasformazioni, l’incontro con l’altro da sé. L’aula intesa come spazio da abitare, senza dubbio con le proprie cose, idee, passioni, domande, ma anche dentro il quale sentirsi parte di qualcosa di grande, importante, bello, capace di riempire quella sete di senso e desiderio, quella fame di vita di cui si nutre ogni adolescente alle prese con la fatica di diventare adulti, assumendosi responsabilità, costruendosi un progetto futuro. Succede qualcosa di speciale alla fine, quando tutto si svuota e si rischia di dubitare che l’esperienza sia valsa la pena. Si tratta di un vuoto stupendo e terribile che il film di Maria Speth osserva con dolcezza senza nasconderne la ferocia, fatto di carne e di ossa, in rotta di collisione con il tempo ma che trova ideale restituzione nella condizione propria dell’alunno, essendo colui che si nutre della propria contraddittoria natura, duplice e sospesa tra poli opposti e contrastanti: un elemento “teso” verso un obiettivo ma pure in tensione per i conflitti che attraversa, le scoperte che compie, i problemi che incontra, le sfide che raccoglie. Chi sono veramente Ferhan, Ilknur, Cengizhan, Mattia, Stefi? La scuola e la vita possono incontrarsi? Per Bachmann non esiste la scuola senza la vita, è certo.
Nel mostrare il rapporto tra presenza e assenza – risulta efficace la scelta di raccontare la solitudine attraverso una semplice sottrazione di elementi visivi che definiscono il fuori-aula mentre per raccontare il senso di appartenenza, di lotta condivisa dentro l’aula si lavora per somma e moltiplicazione – il film di Maria Speth sceglie di stringere lo sguardo sull’immagine di Mr. Bachmann affidandogli la responsabilità di mettere in scena la sua duplice essenza di guida e di “estrattore di tesori”: da una parte incoraggia e accompagna, risponde e testimonia, dall’altra intuisce e sollecita ad appropriarsi personalmente della verità, evitando di consegnare risposte convenzionali e stereotipate, invitando a farsi carico della dinamica e del tragitto della propria esistenza. Immagine autorevole mai messa in discussione che nel finale, di spalle, si concede una lacrima che non vediamo e possiamo soltanto immaginare come le parole future che racconteranno la vita della sua classe.