TFF41- Tutto lo spazio del tempo: Here di Bas Devos

Tutto lo spazio che c’è nel tempo. Quello che non abitiamo (quasi) mai, perché ci sfugge sotto gli occhi e scorre nel flusso continuo delle cronometrie quotidiane, ovvero delle cronologie umane, eppure sta lì, nella sua quiete assoluta, imperturbabile volumetria dell’esistere che riempie quella realtà che noi voracemente consumiamo. È in questo spazio che staziona normalmente il cinema di Bas Davos (Violet, Ghost Tropic) ed è lì che sta Here, il suo film passato nel concorso Encounters della Berlinale 73. Il titolo dice di un “qui” che silenzia il nunc heideggeriano, escludendo la materia del tempo dalla prospettiva di un’opera interamente costruita sul flusso dinamico di un attraversamento. Si parte dal cemento di un cantiere edile, gru, scheletri di edifici che conterranno vite, caschi gialli di operai al lavoro… Le dimensioni contano, le altezze misurano il cielo sopra Bruxelles, sotto il quale si scioglie il fine turno degli operai, che scorrono verso le loro vite, attraversano la città a bordo di bus, diretti verso le loro ferie. Uno di loro è Stefan, docile e un po’ melanconico nell’attesa del suo ritorno in Romania. “Casa mia è qui” si ripete nella solitudine del suo appartamento, ma il frigo è da svuotare e le verdure compongono una zuppa che Stefan intende distribuire agli amici che ha qui.

 

 

Inizia così un film in cammino, limpido e assoluto nella sua immanenza: Bruxelles diventa quasi uno spazio magico, territorio liminare in cui i margini si confondono, il crepuscolo è alba oppure tramonto, l’asfalto si disperde nel terriccio dei giardini, le piante nel greto del fiume… Stefan veste con dolcezza la sua solitudine che conosce tanti amici, con cui condivide la sua insonnia e la sua zuppa: guardiani notturni, pescatori, la sorella infermiera di notte e soprattutto una giovane donna asiatica, che lavora in un ristorante cinese e prepara il suo dottorato di ricerca in microbiologia sui muschi. La linea drammatica del film è offerta dalla traccia di questi incontri, che strutturano il corpo disperso di Stefan in una presenza materiale, fisica, ma anche immateriale, ideale, perché condivisa. Bas Devos si affida al lui per aprire il film alla dimensione concreta dello spazio da vivere in astrazione temporale: Stefan è un indice di unione proprio perché attraversa una città che sta lasciando ma che nondimeno considera casa sua, invertendo il processo di disappropriazione dello spazio in atto nelle metropoli come Buxelles, nei loro luoghi sempre più indifferenziati e astratti.

 

 

Come se invertisse il processo di appropriazione fisica e filmica dei luoghi operato da James Benning nei suoi lavori, in Here il regista belga disvela lo spazio partendo dalla sua presunta assenza, dalla sua invisibilità nel gioco delle relazioni e delle dimensioni che produce quotidianamente il tempo. Il film ritrova la capacità del cinema di Bas Davos di smaterializzare gli spazi metropolitani, di sfaldarli in una dimensione interiore che promana dagli stati di coscienza dei protagonisti. Stefan viene indotto dalla sua nuova amica a guardare i microuniversi del sottobosco, quei muschi che la affascinano tanto perché in un centimetro quadrato contengono una varietà biologica paragonabile a quella di un bosco. E col suo film Bad Devos induce noi a stare nello spazio liminare che separa il Qui di Here dall’Ora del tempo in cui si esiste. Perché la vera rivelazione di questo film, quello che ce lo fa sentire come un miracolo, è la sua capacità di stare nello spazio che ci appartiene ma abitualmente non viviamo: quello intermedio, della mediazione, della condivisione, dell’incontro.