La conquista di una cima come affermazione di una emancipazione negata, o comunque ostacolata, ha costituito per tutta la breve vita di Pasang Lhamu Sherpa il fine ultimo di un’esistenza, il traguardo raggiungibile e utopico con la volontà di compiere un passo decisivo per tutte le donne del Nepal. Il film dell’americana Nancy Svendsen, attivista per i diritti delle donne, rende omaggio a questa donna dalla ferrea volontà unita a una determinazione assoluta nel perseguire il suo progetto. Il film che racconta la sua vita in funzione di quell’obiettivo, costituisce uno dei punti forti del Concorso all’edizione numero 71 del Festival del cinema della montagna di Trento in svolgimento dal 28 aprile al 7 maggio.
Pasang Lhamu Sherpa era una donna nepalese, madre di tre figli, che aveva dentro di sé il desiderio di essere la prima donna a scalare l’Everest raggiungendo la cima più alta. Un’impresa che voleva compiere non solo per una sua personale soddisfazione, ma come segno per un’intera comunità femminile del suo Paese, dominato da una cultura patriarcale e da rigide leggi religiose buddiste che non prevedevano alcun ruolo di rilievo per le donne. Nancy Svendsen con l’ausilio di materiali d’archivio ricostruisce i quattro tentativi di Pasang per realizzare il suo progetto e finalmente nel 1993 la donna, con una spedizione formata da sole donne, sebbene con mezzi limitati riuscì a raggiungere la vetta. Era il 22 aprile 1993 ed erano le ore 14,40. Qualche ora dopo Pasang, conquistata la vetta e offerto un contributo all’emancipazione femminile del suo Paese, proprio per la scarsità di mezzi con cui fu organizzata la spedizione e un improvviso peggiorare delle condizioni meteorologiche, lasciò la sua vita tra quelle nevi senza tempo con alle spalle gli 8.848 metri della montagna più alta del mondo.
Il film tra coltri di neve e bufere che sembra impossibile attraversare e fatica da assenza di ossigeno, ripercorre la lunga battaglia di Pasang dalla prima spedizione alla quale partecipò quasi in maniera clandestina, quando scoperta fu obbligata a tornare indietro, e poi le altre due fallite negli anni successivi fino all’ultima per la quale si adoperò freneticamente per raccogliere i 25.000 dollari richiesti dal governo nepalese per ogni scalata sull’Everest e gli altri fondi necessari per organizzare la spedizione tutta al femminile. Un lavoro duro e incessante condotto in gran parte in solitaria, ma che vide accanto a lei il marito e padre dei suoi tre figli, ma non molti altri le furono solidali. Neppure il governo con il suo primo Ministro incontrato di persona da Pasang per chiedere di essere esentata dal pagamento di quella somma così considerevole, tenendo conto delle condizioni nelle quali agiva. Nonostante un impegno di facciata la somma dovette essere versata e quando, dopo la sua morte, il governo nepalese ne offrì alla famiglia la restituzione, con dignità gli eredi di Pasang rifiutarono il tardivo pentimento. Forse se Pasang avesse avuto una maggiore disponibilità economica avrebbe oggi potuto raccontare lei stessa la sua straordinaria impresa. Ma così non è stato ed è il cinema – in un altro sforzo titanico che ci ricorda nel suo senso profondo, le immagini e le storie di Herzog – a farsi carico di fermare la storia e restituire memoria a queste vicende.
Pasang oggi è divenuta in Nepal un personaggio mitico, dopo di lei altre 65 donne hanno conquistato la cima della montagna più alta del mondo e il 22 aprile di ogni anno se ne festeggia il giorno della memoria. Il film di Svendsen contribuisce a questo mito fatto di ferrea volontà, fragilità umana, acquisita sapienza senza nessuna desistenza ed è per questo che al suo funerale, dopo il recupero delle sue spoglie, la gente partecipò numerosissima, molta di più, dicono le cronache, di quanta ce ne fosse stata al funerale del re. Pasang è diventata la regina dell’Everest e così è ricordata dal suo popolo.