Pubblico in cerca d’autore: Yannick – La rivincita dello spettatore di Quentin Dupieux

La scena inversa, il gioco delle parti (sociali) ribaltato: lo spettatore che cessa la sua funzione passiva, o forse meglio: lo spettatore che smette di guardare la scena e si trasforma lui stesso in scena. Il suo nome è Yannick ed è il protagonista del nuovo film di Quentin Dupieux in Concorso a Locarno76: un uomo solo, un’ombra della strada, che dalla periferia parigina s’è portato, con non poco dispendio di tempo ed energie, nella platea di un teatro del centro, per assistere a una commedia, una classica pochade contemporanea, storia di un marito becco, sua moglie e l’amante in cucina… Il suo essere uno qualunque non esime Yannick dal nutrire il suo scontento e prendere la parola, alzando il sedere dalla poltrona sempre più scomoda e interrompendo lo stridulo ciarlare degli attori in scena per dire che proprio no, così non può continuare: lui ha cambiato turno a lavoro, s’è mosso dalla sua casa di periferia ha comprato un biglietto ed è arrivato lì per divagarsi e dimenticare i suoi problemi, ma lo spettacolo cui sta assistendo non lo fa ridere e ne chiede conto non tanto agli attori ma all’autore o al regista, che però non sono lì…Un secolo di pazienza, del resto, sarà pur sufficiente a che, finalmente, dai personaggi in cerca d’autore si sia passati allo spettatore in cerca dell’autore…

 

 

Sì, insomma, per chiedere giustizia e reclamare non più un ruolo identitario, una coscienza astratta, ma per pretendere concretamente ciò che gli è dovuto, per rivendicare il proprio spazio, la propria azione, soprattutto il proprio bisogno… Evidente che la parabola è storica: immagine semplice ma geniale, quella che adocchia Quentin Dupieux per fotografare in forma di metafora teatrale lo stato di ebollizione sociale cui siamo giunti in questo mondo (ancor più se lo si guarda dalla Francia). Rispetto al profluvio inventivo dei precedenti lavori del regista francese (Doppia pelle, Mandibules, Il fumo provoca la tosse), il film è poco più di questa intuizione, anche narrativamente. Ché Yannick, una volta presa la parola, non la lascia e resta in piedi nella platea ammutolita (o forse solo annichilita, comme d’habitude), interloquisce con i tre attori in scena. I quali non sanno bene come (re)agire dinnanzi alla sua rivolta, lo accompagnano a forza verso l’uscita ma poi lo vedono tornare indietro e, pistola alla mano, pretendere di salire in scena, scrivere un altro spettacolo e costringerli a interpretarlo…

 

 

La funzione concentrica della drammaturgia, il confluire di tutto (luce, azione, sguardi) nel luogo del palcoscenico si traduce in una relazione diffusa: la democrazia entra in scena nella sua imperfetta ingenuità che però bilancia gli assetti… Rivoluzione e rivolta, insurrezione armata, ribaltamento degli equilibri sociali…: Yannick incarna tutto questo e parla a una Francia e a un mondo che avrebbero pure il diritto di prendere la parola dinnanzi allo strazio di commedia triste e trita che è diventata la Storia. Che poi la rivolta di Yannick stia tutta nella presenza scenica del formidabile Raphaël Quenard è il vero valore aggiunto del film, perché questo attore finalmente emergente (ma attivo già da quasi dieci anni) è una vera e propria forza della natura: lineamenti marcati e un po’ grezzi, di matrice popolare, taglio nevrotico nei gesti e nella ritmica del dire, che rasenta vibrazioni da rapper nel fluire incontenibile di battute, accenni, ironie, derisioni… E poi il finale, che giunge a fatale sigillo di una parabola che, proprio perché sta nella realtà, risponde alla logica di un potere che è costituito solo perché mantiene l’ordine, ma non sa certificare la giustizia.