Devanny Pinn, texana nata a Houston nel 1989, è un’attrice nota per il suo lavoro nel cinema indipendente horror statunitense. Genere che ha frequentato da quando aveva 17 anni, esordendo nel 2006 con The Lonely Ones. Da allora ha recitato in una settantina di film. Una lunga esperienza che l’ha portata quest’anno a esordire dietro la macchina da presa con Black Mass, opera prima matura, solida, sobria, tesa, mai ad effetto. Per il suo primo film da regista (in concorso alla sesta edizione di Monsters – Taranto Horror Film Festival), nel quale si è riservata anche una parte, Pinn ha scelto di portare sullo schermo un personaggio noto alla cronaca nera americana degli anni Settanta, il serial killer di studentesse Theodore Robert Cowell, più noto come Ted Bundy. Ma di farlo uscendo dal film biografico, bensì raccontando una giornata nella vita dell’assassino seriale, utilizzando quindi un’unità temporale, dalle otto del mattino del 14 gennaio 1978 all’alba del giorno seguente, e pure spaziale, concentrandosi sui pochi ambienti frequentati in quelle ore dall’uomo (che solo alla fine viene chiamato per nome e cognome dalla polizia sul luogo di un massacro, mentre prima, in un paio d’occasioni, quasi “en passant”, erano state mostrate sue foto segnaletiche con scritto Ted – anche così svincolandosi dalle convenzioni di una narrazione tradizionale), vale a dire il suo appartamento, un supermercato, la casa abitata dalle studentesse prese di mira, un pub, l’appartamento di un’altra donna.
E l’auto di Bundy, un Maggiolino Volkswagen giallo che è la sua “vera casa”, con la quale si sposta da un luogo a un altro nella cittadina della Florida dove ha trovato riparo (ma il film è girato in California) e con la quale si spostava prima (proveniva, in fuga, dal Colorado) e dopo altrove (la usava per intrappolare le vittime, ma ciò non accade, non riesce a farlo accadere, nel corso di quella giornata). A Devanny Pinn interessa altro. E costruisce Black Mass come se fosse tutto una soggettiva, anche quando Ted è in campo, spesso defilato nelle inquadrature, parziale. Non solo le soggettive di lui che spia gli interni della casa con le ragazze o altri spazi. Ogni immagine sembra la visualizzazione dei propri stati d’animo, una sorta di “bolla” visiva e sonora per esprimere le sue alterazioni fisiche e emotive, il fuori e il dentro di sé. Così, Pinn lo pedina con la camera a mano, lo filma spesso di nuca o di profilo o ne mostra gli occhi dagli specchietti dell’automobile o ancora lo fa deambulare a figura intera in quello che si presenta come un prolungato e febbrile accerchiamento filmico che si apre e (quasi, essendoci due epiloghi) chiude con il protagonista nel bagno di casa sua: all’inizio si fa la barba (e la mente non può non andare, pur se il risultato è differente, al breve capolavoro di Martin Scorsese The Big Shave) davanti allo specchio e prepara ad uscire; alla fine torna a casa dopo l’ennesimo omicidio, si aggira con il volto insanguinato per poi ripulirsi sotto la doccia (e essere pronto per una nuova sfida, quella di passare inosservato tra la folla e infine disegnare sul suo volto un ghigno beffardo e memore di tanti altri assassini seriali e maniaci della storia del cinema).
La regista fa sentire la confusione e lucidità di Bundy, rende concreto (anche attraverso l’ottima colonna sonora) il suo respiro ansioso, il suo sguardo eccitato mentre spia le ragazze (una lunga “masturbazione” nonostante, almeno in campo, l’assenza di essa) nell’attesa dell’azione. Un’attesa erotica, pulsante, che si apre a visioni che devastano la sua mente (memorabile la scena con lui che da una finestra osserva di nascosto una delle pensionanti e, testa appoggiata al muro e occhi chiusi, immagina che la giovane nuda cominci a strapparsi la pelle, a divorarsi, a compiere una danza macabra-erotica con le mani guardandolo, in un vortice di rosso, di nero, di pulsioni cromatiche e carnali). Pinn di-segna l’ossessione di un uomo imprigionato nella sua mente, che sembra inafferrabile, sfuggire a ogni presa, dileguarsi e ri-proporsi. Senza nome, conosciuto solo come Me (cui dà espressione convincente l’attore inglese Andrew Sykes), che è Ted Bundy e molti altri, personificazione del Male e delle sue manifestazioni osservate e narrate dall’interno, appunto, di una soggettiva plurale.