Un film sul potere degli spazi abitativi, in opposizione alla narrazione operata dal mercato: con questo spirito Kleber Mendonça Filho ha approcciato il suo ritorno al documentario. Ma non già per una mera questione militante, quanto per un’urgenza che arriva dal vissuto personale. La chiave d’accesso al racconto di una città che cambia – e non una qualsiasi, ma la “sua” Recife, nel Pernambuco, nella parte nord orientale del Brasile – è infatti data dalla rievocazione di uno spazio di vita, intimo e personalissimo come l’appartamento della madre scomparsa. Qui il regista sudamericano ha girato gran parte dei suoi film, dai primi amatoriali (che rivediamo in tutto il loro entusiasmo horror) a quelli per cui è poi diventato più noto. E qui ritorna per raccontarne la storia, che poi è quella della sua memoria e di un angolo di città da cui, per primo, ha assistito al cambiamento occorso dagli anni Settanta in poi. Una metamorfosi dolorosa, che ha delegittimato quel quartiere tagliato a metà dal fiume Capibaribe: la zona, non a caso, dove sorgevano anche i cinema più prestigiosi. Partendo da questi presupposti, Retratos fantasmas si fa racconto appassionato di una città, ma anche appassionante ghost-story – si torna ancora evidentemente all’idea dell’horror – in cerca delle ombre di un passato che non si riflettono nella decadenza del presente. Il film è diviso in tre parti: la prima, come già evidenziato, parte dall’appartamento familiare, alveo di passione per l’arte, la ricerca (la madre era una storica di professione) e la cinefilia come chiave per interpretare il mondo, coinvolgendo parenti e amici, fino a diventare lavoro di una vita.
Uno spazio che vediamo muoversi insieme ai personaggi, sottoposto a più lavori di restauro che ne reinventano per primi gli ambienti, poi ridisegnati ancora una volta quando avviene il passaggio naturale a set delle pellicole dell’autore, come Neighbories Sound e Aquarius. Proprio questa mobilità dello spazio, legittima una lettura vitale, con gli ambienti che diventano autentiche estensioni di un organismo di carne e sangue, che crescono, si sviluppano e infine decadono nella loro terza età. La seconda parte del racconto è così dedicata alla memoria degli alvei vivificatori esterni alle mura domestiche, ovvero le sale cinematografiche: che non sono solo i luoghi in cui Mendonça si è formato, ma anche un autentico baricentro per una comunità cittadina che lì si è più volte riunita, in cui sono nate rivalità date non dal tifo calcistico, ma dalle competizioni tra le sale fra le due sponde del fiume, quella più prestigiosa, quella più lussuosa, quella capace di accogliere più spettatori. Una ricerca che diventa un viaggio mistico e proprio per questo la terza parte è incentrata sulle sale come moderne chiese, alcune delle quali non a caso sono sorte proprio dove c’erano degli autentici templi di culto, per dare forma a una nuova liturgia per la comunità.
Il viaggio nella memoria e nella geografia urbana di Mendonça si offre attraverso un complesso collage di reperti d’archivio, filmini amatoriali personali, stralci delle pellicole più note, elementi ripescati in vari enti e istituzioni come la Cinemateca Brasiliana, il Centro Tecnico Audiovisivo e la Joaquim Nabuco Foundation, scavi negli archivi fotografici e riprese effettuate ex novo negli spazi abbandonati. La ghost story si fa realtà per il tentativo perpetuo di afferrare una memoria ormai perduta, le cui spoglie decadenti rappresentano il j’accuse a un presente che ha dimenticato e avallato la spoliazione culturale e umana del tessuto cittadino. Un progetto economico cui si oppongono gli ultimi baluardi, come il cinema São Luiz, diventato per fortuna una sala pubblica, esterna ai circuiti commerciali. Ma c’è anche altro: ci sono presenze insinuanti negli angoli, spettri che restano impressi sulle fotografie o figure che rivivono attraverso nuovi passaggi televisivi dei film. In questo modo, dalla concretezza del cemento con cui sono state costruite le cattedrali del cinema, il film trascolora senza soluzione di continuità nel fantastico, perché scopo di tutto è anche raccontare l’arte come forma di magia e momento di incontro fra l’uomo e le presenze che, silenziose e discrete, popolano il nostro mondo. Come avviene proprio nella splendida sequenza finale di trasfigurazione, dove il gesto banale di salire a bordo di un taxi diventa chiave d’accesso a un mondo sospeso fra ciò che è visibile e quanto è invisibile. La città, sulla traccia data dal cinema, resta in fondo un luogo sorprendente e meraviglioso come quest’opera che nel rievocare una realtà fattuale, è in realtà un viaggio commovente e prezioso. Presentato al 41° Torino Film Festival nel Concorso Documentari Internazionali.