L’amore è sogno: al BIFFF43 Daniela Forever di Nacho Vigalondo

L’italiana Beatrice Grannò è la Daniela Forever del nuovo film dello spagnolo Nacho Vigalondo, tra le cose più intriganti viste al BIFFF43. Occhi chiari, aria dolce che promana serenità, un’intelligenza sensibile che le viene naturale in quanto artista, la Daniela di Beatrice Grannò non ha però il tempo di chiedersi quando mancherà a Nicolás (giusto per citare il bel film di Francesco Fei che l’ha sostanzialmente vista esordire: Mi chiedo quando ti mancherò…): dj di grido, l’uomo – che è interpretato dal malesiano Henry Golding – ha perso il ritmo della sua vita da quando la sua amata Daniela è morta, travolta da un’auto mentre attendeva un bus a una fermata in centro. Come dire che Daniela Forever sta al film di Vigalondo come un fantasma sospeso sull’eterno dolore della sua perdita, in quel limbo di rimpianto e malinconia che, nella sfera della vita quotidiana di Nicolás, assume i connotati della classica depressione. Melodramma fantastico, dunque. Se fossimo in un film di Michel Gondry (cosa non del tutto fuori luogo), certamente sì. Ma siamo in un film di Nacho Vigalondo, che è quello di Timecrimes e di Colossal, film di slittamenti spaziotemporali incarnati in storie che guardano verso il basso della quotidianità, e allora Daniela Forever è piuttosto una commedia post-romantica, incisa a caldo nella cera di una storia d’amore fantasy, sospesa tra analogico e digitale, ovvero tra organico e chimico, quindi tra realtà reale e realtà virtuale…

 

 
D’accordo, proviamo a essere più chiari – magari anche per evitare lo strillo “je n’ai rien compris!!” che è uno tormentoni del magnifico pubblico del BIFFF… Le cose stanno sostanzialmente così: Nicolás è disperato, non sopporta l’idea di vivere senza la sua Daniela e allora l’amica Victoria lo mette in contatto con un’impresa farmaceutica che sta sperimentando una nuova pillola di produzione belga, in grado di far vivere le persone nei propri sogni come se fossero nella realtà. L’idea sarebbe quella di liberare progressivamente l’uomo dalla sua dipendenza dal ricordo di Daniela, ma Nicolás, un po’ per sbaglio e un po’ per comodo, ottiene l’effetto opposto e si ritrova felicemente prigioniero della realtà del suo mondo onirico: padrone e signore assoluto di una vita stupenda con Daniela, in cui governa ogni azione e ogni reazione, cancella tutto ciò che non gli sta bene e sostanzialmente tiene prigioniera la sua principessa. Almeno sino a quando anche in questa realtà Daniela non ritrova Teresa, l’amica della quale si era segretamente innamorata nella vita reale e della quale si innamora anche nella vita immaginata da Nicolás…Vigalondo impasta e amalgama tutti gli elementi, sostiene il versante fantastico con un sentimentalismo umoristico che guarda alla tristezza del melodramma con ironia, ma insiste anche sul dolce bisogno di eternità (forever!) che ogni innamorato pretende dalla sua storia d’amore. Il tutto si avvita sulla spirale tra realtà e immaginazione, che fa slittare i piani della narrazione: la tristezza della vita reale senza Daniela ha l’impasto caliginoso della fotografia analogica (immagine in 4:3, definizione bassa) mentre quella sognata in sua compagnia è in 16:9 digitale…

 

 
Il punto è che Daniela Forever è un film sulla distopia del sentimentalismo: magrittiano ma con gioia nel sostenere una qualità performativa della fantasia che dialoga con le angosce dei sentimenti, col bisogno di eternità, con la pulsionalità del tempo interiore, che non accetta consigli da quello esteriore. Tra vita e immaginazione, un po’ come tra relazione e desiderio, si instaura una dipendenza che non lascia spazio al confronto. Nacho Vigalondo, che non ha la dolcezza introflessa di Gondry, scompone la realtà degli innamorati e si concede lo spazio di un faccia a faccia con la propria visione performativa del mondo, stazionando con consapevolezza nella tradizione del cinema spagnolo post-Almodovar (quella che in maniera più problematica stava frequentando Carlos Vermut, per intenderci). Daniela Forever allora gioca con lo spazio e con il tempo e gioca soprattutto con il dolore del suo protagonista, palleggiando con il suo tormento affidato alla leggerezza da screwball comedy del protagonista Henry Golding. Che a volte ha lo stordimento un po’ stupito di un Cary Grant hawksiano. Il ritmo c’è tutto e la confusione pure, le lacrime mancano mentre i sentimenti transitano tra mondo analogico e digitale: forse è qui che Vigalondo intendeva arrivare…