La dimensione epica della generosità è una di quelle cose che al cinema funzionano meravigliosamente: la quadratura tra lo sforzo del singolo e la salvezza dei molti trova subito la misura giusta dello schermo, la magnitudo della scossa emotiva necessaria a collocare la Storia nella sua bella cornice da appendere nel salotto della vita quotidiana. Nulla di male, in sé. Un ottimo esempio lo offre One Life di James Hawes, che ricostruisce con perizia drammaturgica non indifferente la storia autentica di Nicholas Winton, giovane broker londinese che, alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, riuscì a salvare la vita di 669 bambini ebrei fuggiti con le famiglie in Polonia dalla Germania e dall’Austria. Anthony Hopkins incarna l’età anziana di questo “giusto” londinese, che a meno di trent’anni si recò a Praga e riuscì a organizzare una serie di treni della salvezza, facendo arrivare a Londra tanti piccoli profughi, dotati di visto britannico e famiglia di accoglienza. Il vecchio Nicky di Hopkins (il giovane è interpretato, con giusta neutralità, da Johnny Flynn) barcolla tra le carte dei ricordi, custodendo in una vecchia borsa un album in cui è raccontata la sua storia ormai dimenticata. Ci penserà un programma televisivo a renderla nota e a restituire all’anziano eroe il valore di ciò che ha fatto, al di là del suo rammarico per non esser riuscito a salvare ancora più bambini.
La dinamica è immediata e il film la comunica senza mezzi termini: salvi una vita e idealmente le salvi tutte. La lista che è vita schindleriana applicata alla memoria postuma di un eroe britannico, che attivò la sua Dunkerque personale: treni al posto delle barche, l’Est Europa al posto della Manica, mobilitando dal basso il paese contro la barbarie avanzante. E poi c’è tutta la prospettiva dell’età anziana, del tempo che rischia di far perdere le prospettive e dimenticare la Storia, deriva d’indifferenza a margine della quale c’è, nel bellissimo finale mutuato dal programma della BBC “That’s Life”, la levata del coro, che restituisce il senso all’azione del singolo, ormai smarrito in se stesso…
One Life funziona, muove lo spirito e commuove lo spettatore. Senonché è innegabile che la visione di un film come questo provochi oggi un cortocircuito che sta esattamente nel punto di contatto tra le (scarse!) immagini dei bambini palestinesi in fuga nel dicembre 2023 dagli attacchi alla Striscia di Gaza e le immagini dei bambini israeliani profughi nella Polonia del dicembre 1938 assediata delle truppe naziste. Ed è difficile reggere il colpo emotivo di un simile parallelo, che il film di James Hawes offre come involontario giudizio storico e politico, frutto di una coincidenza per fortuna non rimossa dallo sguardo e dal giudizio del pubblico (cosa che non si può dire, per esempio, per il film di Michael Winterbottom Shoshana, la cui uscita già annunciata a novembre è poi stata rimandata sine die…).
Perché se One Life è un film che ci commuove raccontando lo sforzo straordinario di un giovane inglese per portare in salvo il maggior numero di bambini ebrei da Praga prima dell’invasione nazista, non possiamo accettare che questa emozione sia il semplice frutto di una narrazione posta nella prospettiva storica, che la distanza critica dagli eventi offra un appiglio alla mano che brancola nel buio della morale quotidiana. Dove la vita di un bambino annegato nel Mediterraneo o quella di una bimba in fuga da Gaza siano qualcosa di meno drammatico e meno commovente di ciò che un film come One Life ci racconta in maniera così efficace nella rassicurante prospettiva storica.