L’Antartide rappresenta per Luc Jacquet un polo attrattivo irresistibile. Da studioso di biologia animale ha trascorso quattordici mesi nel 1991 presso la base francese Dumont d’Urville per una missione ornitologico-ecologica, cui hanno fatto seguito ripetuti viaggi in Antartide e nelle isole dell’emisfero australe non più come studioso ma in qualità di regista. Lo scopo primario era quello di sensibilizzare sui temi dell’ambiente e del progressivo riscaldamento climatico causato dall’uomo anche prima che diventasse l’argomento urgente dei nostri giorni. Di viaggio in viaggio (dal 2005 con La marcia dei pinguini ad oggi), però, le sue missioni sono state spinte anche da una sorta di dipendenza per il paesaggio assoluto e ipnotico di queste latitudini. Lo spiega lui stesso proprio all’inizio di Viaggio al Polo Sud, mentre si appresta a lasciare casa per l’ennesima volta attratto da un’avventura lunga e totalizzante. Jacquet sceglie come stratagemma narrativo la forma del diario di viaggio, che inizia in Patagonia e scende di grado in grado verso il continente antartico. Attraverso il Passaggio di Drake e i canali già percorsi da illustri viaggiatori come Magellano, Cook, Darwin, FitzRoy, Charcot, Scott, Amundsen e molti altri. Il bianco e nero rappresenta fin da subito una scelta netta (e forse non del tutto condivisibile) come segno tangibile della necessità di andare oltre la pura descrizione dei luoghi.
Abbandonare il realismo per cercare di esprimere la parte più sfuggente dei sentimenti. “La storia dei paesaggi dell’anima”, come li chiama il regista francese, appesantiti però, da un intervento invadente degli effetti (grandangoli arditi e sfocature ai margini delle inquadrature), che non lasciano respirare le immagini e con esse le emozioni inevitabili che sorgono di fronte a scenari grandiosi, animali sorpresi nel loro habitat, tempi dilatati che nulla hanno a che vedere con la nostra civiltà urbana. Viaggio al Polo Sud è un film in disequilibrio tra l’intenzione di celebrare il magnetismo del sesto continente, abbagliante e puro, ma “che può turbare le bussole e le menti”, e la mancata fiducia riservata ad immagini che, nella loro purezza, avrebbero potuto dimostrarsi più grandiose, più seducenti, più coinvolgenti. La voce fuori campo del regista accompagna questo lirismo, mentre la musica tenta di suggerire la continua meraviglia, anche quando il silenzio ha più volte dimostrato di saper raccontare ghiacciai e distese di neve nel modo più poetico e al tempo stesso efficace.