Paul Auster la vita, il caso, la scrittura, il cinema

Da studenti Wim Wenders e Paul Auster erano a Parigi negli stessi anni. Si sono sfiorati dato che Wenders ha presentato domanda per essere ammesso all’Institute des Hautes Études Cinématographiques a Parigi ed è stato respinto, mentre Auster ha ritirato la domanda di iscrizione ma non l’ha mai compilata. L’ha giudicata troppo complicata e ha lasciato perdere. Anni dopo si sono confrontati su quella esperienza, sul fatto di non essersi incontrati. Il caso come sempre ha deciso. Auster lo sapeva da sempre. Tutto è iniziato quando Paul aveva 14 anni. Era a un campo estivo e un ragazzo vicino a lui venne colpito da un fulmine e morì: «È qualcosa che non ho mai superato. Eravamo una ventina,  sorpresi da un temporale nel bosco. Qualcuno disse che dovevamo raggiungere una radura e dovemmo strisciare, in fila indiana, sotto un recinto di filo spinato. Mentre il ragazzo immediatamente davanti a me stava passando la recinzione un fulmine la colpì. Eravamo vicinissimi…» Auster non venne preso per una questione di secondi e di centimetri: «Sono sempre stato perseguitato da quello che è successo, dalla sua assoluta casualità. Penso che sia stato il giorno più importante della mia vita». Giova ricordare che un incidente simile avviene in 4321, romanzo- apoteosi del turning point dove il protagonista Archie Ferguson ha quattro possibili vite, secondo le scelte che fa. In una si rifugia sotto un albero durante un temporale e viene ucciso da un ramo che cade: «as his inert body lay on the water-soaked ground … thunder continued to crack, and from one end of the earth to the other, the gods were silent». Per ricordare quello che il New York Times ha definito Il santo patrono della Brooklyn letteraria, (si pensi solo alla trilogia composta da: Città di vetro, Fantasmi e La stanza chiusa ), proponiamo una serie di sue dichiarazioni su vita, letteratura, cinema, tratte da The New York Times, Tha Washington Post, The Guardian, Le Monde.
(M.R.)
 
 

Sul set di Smoke (1995)

 
La musica della lingua
In generale, non voglio fare cose. Mi sento pigro e demotivato. È solo quando un’idea mi afferra e non riesco a liberarmene, quando cerco di non pensarci eppure mi tende continuamente un’imboscata. Allora sono sbattuto contro un muro. L’idea è lì a dirmi: «Devi prestarmi attenzione perché sarò il futuro della tua vita per il prossimo anno o due o cinque». Allora mi sottometto. Ci entro. È qualcosa che diventa così necessario per me che non posso vivere senza realizzare quel progetto. È così che inizia. Un libro, allo stesso tempo, ha a che fare anche con quello che io chiamo un ronzio in testa. È un certo tipo di musica che inizio a sentire. È la musica della lingua, ma è anche la musica della storia. Devo convivere con quella musica per un po’ prima di poter mettere qualsiasi parola sulla pagina. Penso che sia perché devo abituare il mio corpo tanto quanto la mia mente alla musica di scrivere quel particolare libro…

 
 
Le storie sono cibo
L’ umanità condivide un desiderio universale di storie. Le persone hanno disperatamente bisogno di storie, tanto quanto hanno bisogno di cibo. Vanno tutte bene, possono essere presentate su una pagina stampata o su uno schermo, ma per ognuno di noi sarebbe impossibile immaginare la vita senza di loro. Per me, all’inizio del percorso, è stato molto più facile scrivere che fare film. Tutto ciò di cui avevo bisogno era una matita e un pezzo di carta, mentre fare cinema era qualcosa a cui non avevo accesso, anche se lo sognavo. Ho cumunque cominciato a scrivere sceneggiature, erano vicende più comiche che tragiche. Un po’ nello spirito di Buster Keaton, non storie slapstick, ma strane, molto strane, in stile anni Venti.

 

 
 
Pensare per immagini
I romanzi sono pura narrazione; le sceneggiature assomigliano al teatro e, come in tutta la drammaturgia, le uniche parole che contano sono nei dialoghi. Si dà il caso che i miei romanzi generalmente non contengano molti dialoghi, quindi per poter lavorare nel cinema ho dovuto imparare un modo di scrivere completamente nuovo, insegnare a me stesso come pensare per immagini e come mettere le parole in bocca a degli esseri umani viventi. La sceneggiatura è una forma di espressione più ristretta rispetto alla scrittura di romanzi. Ha i suoi punti di forza e di debolezza,  ci sono cose che puoi fare e quelle che ti sono precluse. La questione del tempo, ad esempio, funziona diversamente nei libri e nei film. In un romanzo, puoi comprimere un lungo periodo di tempo in un’unica frase: ogni mattina per vent’anni sono andato all’edicola all’angolo e ho comprato una copia del Daily Bugle (Ndr il mitico quotidiano immaginario di New York dell’universo Marvel, apparso la prima volta nei Fantastici Quattro, vol.1 gennaio 1962). È impossibile farlo in un film. Puoi mostrare un uomo che cammina per strada per comprare un giornale in un giorno particolare, ma non tutti i giorni per vent’anni. I film sono ambientati nel presente. Anche quando usi i flashback, il passato è sempre rappresentato come un’altra incarnazione del presente.

 
 
Confrontarsi con gli attori
In fondo quando crei un personaggio la scrittura e la recitazione si incontrano. Devi entrare nella mente di caratteri molto diversi da te. Il processo ricorda quello di un attore quando interpreta un personaggio. Ecco perché nelle occasioni nelle quali ho lavorato a film, non ho mai avuto problemi a parlare con gli attori. Mi sono sempre sentito in grande sintonia con loro. È stato dopo quelle esperienze che ho capito che c’è una somiglianza tra scrivere fiction e recitare. Lo scrittore lo fa con le parole sulla pagina e l’attore lo fa con il suo corpo. Lo sforzo è lo stesso. Questo è ciò che fa l’immaginazione. Ti spinge verso le persone che non sei, verso l’ignoto, verso il diverso.

 

Blue in the Face (1995)

 
Io e il cinema
Considero le mie avventure nel cinema come felici incidenti, perché da sempre mi interessa come spettatore, ma non avrei mai pensato di finire per essere coinvolto nell’industria fino a questo punto. Quando la porta si è aperta e ho scoperto che ce l’avrei potuta fare,  mi è piaciuto moltissimo. Non è che voglio essere un regista a tempo pieno, non è l’obiettivo principale della mia vita, ma i  film che ho realizzato sono state grandi avventure per me e penso che mi abbiano aiutato come persona. È bello uscire dalla mia stanza ogni tanto, lavorare con altre persone pensare a modi diversi di raccontare storie, quindi credo che sia stata una buona medicina per me, per il mio modo di lavorare. Negli anni in cui ho girato film non ho mai preso in considerazione l’idea di abbandonare il romanzo. I due film con Wayne Wang  mi hanno preso due anni di vita.  Comunque è stata un’esperienza meravigliosa.

 
 
Blue in the Face
Penso che Blue in the Face sia il  film più folle che abbia mai fatto. Era attraversato da una sorta di eccesso di entusiasmo, una gioia che abbiamo provato tutti nel lavorare insieme. È  un film molto solido. Non so se è un gran lavoro, ma ha energia. Continuavo a chiamarlo nella mia mente “commedia situazionista”, invece che commedia di situazione.  È stato davvero divertente; ci sono voluti sei giorni per girarlo, ma poi dieci mesi per montarlo. È stato un po’ un incubo. Non sapevo come dare un ordine al materiale. Abbiamo girato tre giorni a luglio e poi altri tre giorni ottobre. Per le scene di luglio ho dato degli appunti agli attori, ma per le scene di ottobre ho scritto una vera sceneggiatura e la maggior parte degli attori l’ha seguita, non sempre, ma per lo più. Così alla fine c’era da fondere molta improvvisazione, ma anche del materiale sceneggiato.
 
 

Città di Vetro a fumetti

La versione a fumetti di Città di Vetro è stata un’idea di Art Spiegelman che ha ingaggiato Paul Karasik e David Mazzuchelli. L’unica cosa che ho detto loro è stata: «Potete togliere tutto ciò che volete dal libro, ma non potete aggiungere nemmeno una parola», quindi tutte le parole nell’adattamento provengono dal romanzo. Un giorno ci siamo riuniti tutti e quattro e abbiamo esaminato la prima bozza e fatto commenti, ma a parte questo non ho avuto nessun coinvolgimento in questa operazione. Sono soddisfatto del risultato, penso che sia piuttosto interessante. L’ho percepito quasi come uno storyboard per un film. È molto cinematografico.