La stanza degli omicidi di Nicol Paone fra parodia, commedia e pulp

Dopo aver mollato l’artista di punta della sua galleria per una questione etica, Patrice (Uma Thurman), mercante d’arte newyorkese di mezza età e con la puzza sotto il naso, fatica non poco a promuovere le opere dei suoi pupilli, oltre che a mantenere vizietti personali fuori ordinanza. Quando il suo pusher accetta in pagamento un dipinto, l’insolita transazione viene a conoscenza di un bizzarro gangster afroamericano che parla yiddish (Samuel L. Jackson), stimolandone la fantasia criminale. Al punto che costui si presenta al cospetto dell’allibita gallerista, sottoponendole un piano di riciclaggio che ritiene di reciproca soddisfazione. E quando questa accetta, dopo minime titubanze scacciate dagli orizzonti che intravvede, incarica il suo killer prediletto – lo spietato Reggie (Joe Manganiello), specializzato nel soffocamento delle sue vittime – di cimentarsi con i pennelli, al fine di ricavarne croste accettabili per giustificare i frequenti passaggi di denaro. Non prevedendo di creare un mostro, visto che Reggie si ispira (più o meno) a Jackson Pollock e che, nella sua faretra d’assassino, vanta frecce creative della cui potenzialità nemmeno è consapevole: ma che, di fatto, si trasforma nel nuovo, inafferrabile, astro della scena americana, internazionalmente noto come The Bagman.

 

 
Non era affatto male la sceneggiatura di Jonathan Jacobson per La stanza degli omicidi (titolo che riprende alla lettera quello americano, The Kill Room, suonando peraltro assai più ordinario), abbastanza originale per il mondo ossessivamente derivativo di Hollywood, anche se non proprio inedita. Ma la regia di Nicol Paone, che viene dalla stand-up comedy e dovrebbe essere abituata a ritmi serrati, non riesce a trasformarla in un film che vada oltre il compitino convenzionale, lo stesso a cui si conformano le due star della partita, di nuovo riunite su uno stesso set trent’anni dopo l’esito strepitoso (non solo per merito loro, ovviamente) del tarantiniano Pulp Fiction. È questione di registri, probabilmente, nel senso che Paone non sceglie mai, se non proprio alla fine (dove è invero convincente), quale modalità narrativa adottare tra la commedia ironicamente moderna, quella grottesca e la parodia esplicita, il pulp (come parrebbe suggerire la sequenza iniziale), il dramedy o il crime.

 

 
Mescola i generi, che è pratica indubbiamente moderna, ma senza calibrare gli ingredienti, per cui più che un film versatile che sa nascondere la direzione intrapresa per stupire più a lungo, sembra uno di quegli esemplari cinematografici alla costante ricerca di un centro di gravità, che non sa bene dove vuole andare. Così procede scarico, con i due poli attoriali (l’algida e tuttora meravigliosa Thurman, l’istrionesco Jackson sempre uguale a sé stesso) che si mangiano il povero Manganiello, elemento neutro senza il necessario carisma, confuso e sballottato al pari del suo personaggio, che è schiacciato da un passato ingombrante e incapace anche soltanto di immaginare una prospettiva diversa; lasciando quindi ad alcune figure di contorno la miccia per accendere situazioni moderatamente divertenti che scandiscono il progredire della storia, sviluppata quasi tutta in interni, tra atelier, vernissage e ritrovi in tavole calde da malavitosi. A un certo punto qualche spettatore si ritrova probabilmente a pensare cosa avrebbe ricavato da un simile soggetto un cineasta tipo Guy Ritchie, aduso a congegni narrativi action e dissacranti, dall’andamento vertiginoso e dagli incastri perfetti. Siamo ovviamente nel campo delle ipotesi non verificate, e allora accontentiamoci di tirare le fila della disamina e prendere atto che La stanza degli omicidi non incanta ed è costantemente sottotono, ma non annoia e non disturba, facendosi vedere con moderato piacere.